Terrorismo, il nuovo tabù d’America a caccia di Stati canaglia nel mondo
I propositi di
vendetta di Saddam, delle folle palestinesi e degli iraniani
hanno un suono
diverso da quello che avevano prima dell’11 settembre
Secondo un sondaggio degli scorsi giorni il 78% degli americani ritiene che le bombe umane dei palestinesi siano atti terroristici. Ma poco più del 50% è convinto che anche le rappresaglie israeliane possano definirsi tali. «Terrorismo» è improvvisamente divenuto in America una formula passepartout con cui è possibile definire situazioni e realtà alquanto diverse. La parola definisce genericamente la violenza nelle sue manifestazioni più terrificanti e suscita quindi una indignazione che può, a seconda delle convinzioni personali, colpire l’uno o l’altro dei protagonisti della crisi palestinese. Ma il governo, intanto, se ne serve soprattutto per meglio mobilitare la pubblica opinione contro gli «Stati canaglia». Se il terrorismo è il nuovo nemico dell’America, sono implicitamente terroristi, per i «falchi» della nuova presidenza, tutti i Paesi da cui gli Stati Uniti si sentono minacciati e in particolare quelli che intendono dotarsi di armi nucleari, biologiche e chimiche. L’equazione è utilizzata soprattutto per il regime di Saddam Hussein a cui i collaboratori più intransigenti di Bush muovono alcuni rimproveri che sono divenuti ormai una sorta di sillogismo: vuole possedere armi di distruzione di massa, ha usato le armi chimiche per reprimere una insurrezione curda nel nord del Paese, aiuta i terroristi, incoraggia i kamikaze palestinesi regalando alle loro famiglie la somma di 25.000 dollari, ed è quindi terrorista.
L’Iraq ha un pessimo
governo, ma il sillogismo non è del tutto convincente.
Saddam sta probabilmente lavorando alla
creazione di un arsenale nucleare, ma quello del Pakistan non ha impedito
alla presidenza Bush di trattare il generale Musharraf come un alleato.
Saddam ha massacrato i suoi sudditi, ma i ventimila siriani uccisi dal
presidente Assad a Hama nel 1980 non hanno impedito al segretario di Stato
americano Colin Powell di fare visita al figlio negli scorsi giorni. Saddam
manda un premio in denaro alle famiglie dei guerrieri suicidi della resistenza
palestinese, ma l’America ha eccellenti rapporti con l’Arabia Saudita che
finanzia da molti anni le scuole religiose più radicali del mondo
musulmano.
Queste incoerenze cedono il passo, nella
percezione degli americani, alle spaventose immagini dell’11 settembre.
Jim Hoagland ha probabilmente ragione quando scrive nell’ Herald Tribune
del 15 aprile: «Nonostante l’aiuto e le abbondanti manifestazioni
di profonda e sincera simpatia provenienti dall’Europa sulla scia dell’11
settembre, molti europei non sembrano comprendere quali profondi cambiamenti
il giorno del terrore abbia provocato nelle vite degli americani. Non sembrano
capire, in particolare, che le esplicite minacce e i propositi di vendetta
espressi da Saddam, dalle folle palestinesi e dai mullah iraniani hanno,
nelle loro orecchie, un suono alquanto diverso da quello che avevano un
giorno prima degli attacchi».
E’ difficile quindi convincere l’uomo
della strada negli Stati Uniti che la realtà non è esattamente
quella descritta dal governo del suo Paese o ricordargli che la stessa
America, in passato, non ha esitato a sporcarsi le mani in «operazioni
coperte», finanziare gruppi ribelli e fare uso, come in Vietnam,
di armi chimiche. Mi è parso che fosse più facile discuterne
con un gruppo di giovani giornalisti e studenti dell’Università
del Michigan dove ho parlato di rapporti fra l’Europa e l’America. L’Università
è ad Ann Arbor, una città di 144.000 abitanti sul fiume Huron,
a poco più di cinquanta chilometri da Detroit. Mentre la capitale
dell’automobile è ancora afflitta da una grave forma di degrado
urbanistico, Ann Arbor è un’oasi di decoro civile e virtù
accademiche. Ha un piccolo centro degli affari, molti edifici universitari
in stile neogotico o neoclassico e tante casette di legno col tetto a punta
nascoste fra gli alberi e circondate da piccoli giardini. Quando fu fondata
nel 1824 da due intraprendenti commercianti era soltanto una stazione di
posta sulla via dei grandi laghi, non lontana dal «campo delle cipolle»
dove stava lentamente crescendo la grande città di Chicago. Oggi
è uno dei maggiori centri accademici americani. Non ha la nobiltà
e il fascino delle città universitarie della Nuova Inghilterra,
ma le sue facoltà e i suoi programmi sono, con quelli della University
of Chicago, i migliori del Midwest.
Fra questi programmi ve n’è uno
per giovani giornalisti. Debbono avere una esperienza professionale non
inferiore a 5 anni, debbono ottenere un congedo di otto mesi, da settembre
ad aprile, debbono rinunciare per tutta la durata del soggiorno a qualsiasi
attività giornalistica, debbono riprendere la loro attività
alla fine del programma accademico. Se la domanda viene accettata possono
contare su uno stipendio mensile di 6.875 dollari e sono liberi di seguire
qualsiasi corso delle facoltà universitarie. Ma si riuniscono periodicamente
nella sede del loro istituto per ascoltare un ospite e discutere con lui
di un problema del giorno.
Quelli che ho trovato di fronte a me erano
trentenni, brillanti, informati e impiegati in giornali o stazioni radiofoniche
americane. Ma vi erano con loro anche alcuni «fellows» stranieri:
un italiano (Marzio Mian), un cronista sportivo del Clarin di Buenos Aires,
un redattore della Bbc e un giornalista pakistano che dovette prendersi
una lunga vacanza qualche mese fa perché era finito nella lista
nera di certe organizzazioni islamiche del suo Paese.
Abbiamo parlato molto, come era inevitabile,
di terrorismo. Per rendere la discussione più interessante ho forzato
la mano usando talvolta argomenti certamente discutibili. Esiste una fondamentale
differenza, ho detto, fra il terrorismo palestinese e quello di Al Qaeda.
Gli uomini di Osama Bin Laden appartengono a una società segreta,
combattono per un vago e fumoso progetto ideologico. Mentre i martiri di
Al Aqsa e gli attentatori suicidi di Hamas appartengono a un popolo e ne
rappresentano le aspirazioni. Quella che si combatte in Palestina, ho aggiunto,
è in realtà una guerra asimmetrica in cui il debole colpisce
il forte là dove è più vulnerabile e le armi utilizzate
dal primo sono la inevitabile consequenza della superiorità bellica
del secondo. Le guerre simmetriche, fra Stati dotati delle stesse armi,
sono sempre più «pulite» delle guerre asimmetriche.
La stessa osservazione, sia detto per inciso, vale anche per l’America,
condannata dalla propria potenza a battersi sempre più frequentemente,
d’ora in poi, contro «armi improprie».
Il terrorismo palestinese non è
sostanzialmente diverso, ho osservato ancora, da quello algerino negli
anni della lunga «guerra d’indipendenza» contro la Francia
o da quello irlandese prima degli accordi del Venerdì Santo. Come
il movimento irlandese anche Hamas ha due teste: una fazione armata e un
partito politico. Come il movimento algerino e quello irlandese, i gruppi
palestinesi suscitano la simpatia di quanti credono che ogni popolo abbia
diritto al suo Stato. Quando era senatore, alla fine degli anni Cinquanta,
John Kennedy si espresse severamente sulla politica francese in Algeria.
E più recentemente il terrorismo irlandese è stato aiutato
finanziariamente da alcuni settori della società americana.
Perché il kamikaze palestinese,
ho chiesto, dovrebbe essere più esecrabile del terrorista algerino
o irlandese? Tutti e tre hanno colpito vittime civili e innocenti. E, su
un altro piano: perché l’occupazione indiana del Kashmir non dovrebbe
essere ancora più condannabile dell’occupazione irachena del Kuwait?
L’India si è impadronita di un territorio prevalentemente musulmano,
mentre l’Iraq ha conquistato una vecchia provincia dell’impero Ottomano
a cui nessuno, per molto tempo, aveva riconosciuto dignità statale.
A quest’ultima domanda mi è stato
risposto che l’India, a differenza dell’Iraq, ha un regime democratico,
quindi internazionalmente più affidabile. Alla prima, che il kamikaze
palestinese usa la propria vita come un’arma e non esita a morire con le
proprie vittime. Accetto realisticamente la prima risposta, ho replicato,
ma non riesco a comprendere perché il terrorista prudente che uccide
donne e bambini dovrebbe essere meno colpevole del terrorista suicida.
Dopo tutto, ho aggiunto, nulla dimostra la serietà di una causa
quanto la disponibilità del fedele a sacrificare per essa la propria
vita. La risposta a quest’ultima osservazione è molto interessante.
Il terrorista suicida, mi è stato detto, s’introduce tra la folla
come un pacifico passante e rompe il rapporto di fiducia che ciascuno di
noi stringe implicitamente con chiunque usi lo stesso mezzo pubblico e
frequenti lo stesso mercato. Il suo atto, quindi, è particolarmente
terrificante.
Ritorniamo così alle osservazioni
di Hoagland a proposito dell’influenza che gli avvenimenti dell’11 settembre
hanno avuto sulla vita quotidiana degli americani. Per noi, il terrorismo
è un fenomeno endemico che ha distinto quasi ovunque in Europa gli
ultimi trent’anni del Secondo dopoguerra. In America è stato per
molto tempo la follia di un indigeno (come nel caso di Timothy Mc Veigh
a Oklahoma City) o un evento occasionale.
Questa diversa percezione renderà
diverse per molto tempo le politiche dell’America e dell’Europa in Palestina,
in Afghanistan, in Iraq, in Iran.
Sino al giorno in cui gli americani, con
il loro straordinario buon senso, avranno assorbito lo shock dell’11 settembre
e ricordato che anche il terrorismo, soprattutto nelle sue manifestazioni
nazionali, è un fenomeno politico a cui occorre rispondere, in ultima
analisi, con le armi della politica.
( Secondo di una serie di tre articoli
-
Il primo è stato pubblicato lunedì
15 aprile)