Avvenire - Giovedi 29 Novembre 2001
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 Da testimoni a bersagli

Recuperato il corpo dell'operatore svedese Stromberg. Ieri funerali
dell'australiano ucciso con Maria Grazia Cutuli Giornalisti,

Forse sequestrato altro reporter. Nessuna notizia del canadese
Dall'inizio dell'anno 27 i cronisti assassinati, 108 quelli arrestati
Barbara Uglietti
 

(B.U.) Continua la guerra dichiarata dai taleban ai giornalisti: ieri, i miliziani hanno avrebbero sequestrato un altro corrispondente occidentale. La notizia è stata riferita da Kenton Keith, portavoce della coalizione internazionale contro il terrorismo: «Abbiamo sentito che un reporter è stato preso in ostaggio», ha detto Keith, che però non ha potuto fornire ulteriori dettagli. Ed è ancora nelle mani dei taleban il canadese Ken Hetchman, del Montreal Mirror, sequestrato, martedì, nella zona di Kandahar.
Ieri, una quarantina di giornalisti di tutti i Paesi, inviati a seguire la guerra in Afghanistan, hanno riportato a Dushanbe, in Tagikistan, il corpo del cameraman svedese della Tv4, Ulf Stromberg, ucciso nella
notte di martedì a Taloqan. E, sempre ieri, nella chiesa cattolica di Santa Maria a Hobart, capitale della Tasmania (Australia), centinaia di persone si sono radunate per dare l'addio a Harry Burton, l'operatore
australiano della Reuters assassinato da una banda armata il 19 novembre, insieme a Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera, allo spagnolo Julio Fuentes di El Mundo e al collega afghano Azizullah
Haidari. Anche L'Europarlamento di Bruxelles ha reso omaggio, con un minuto di silenzio, ai giornalisti trucidati: la presidente Nicole Fontaine ha espresso «ammirazione per il modo in cui hanno svolto il
loro mestiere». Dall'inizio dell'anno, secondo i dati di Reporter sans frontieres, sono
27 giornalisti morti sul campo o per le loro opinioni; e sono almeno 108 quelli prigionieri nelle carceri di diversi Paesi i cui capi fanno parte della lista dei 39 Predatori della libertà di stampa redatta
dall'organizzazione diretta da Robert Menard.
Il punto di partenza e quello di arrivo si offrono con l'evidenza di un dato di fatto: giornalismo in guerra, prima; guerra al giornalismo, infine. Ci vuol niente a leggere, quantomeno intuire, il percorso
tribolato che ha portato, tappa dopo tappa, attraverso tutti i conflitti del mondo, al confine estremo di questi giorni, con una taglia sulla testa dei giornalisti occidentali che sembra la perfetta
chiusura di un cerchio disegnato dalla storia: informazione, controinformazione, disinformazione, non-informazione. Dal Vietnam in poi il rapporto tra guerra e giornali ha subito una
specie di mutazione genetica: due sistemi, quello militare e quelle dell'informazione, hanno smesso di essere indipendenti, per fondersi in un unico meccanismo che fa la guerra, quando c'è una guerra da fare. Il
vizio, se poi di vizio si può parlare, sta nella scientificità strutturale e tecnologica dei due apparati, che hanno automatismi interni e di attenzione reciproca ormai così tanto praticati-collaudati-
analizzati da diventare strumento tanto facile da manipolare. Il giochino lo ha imparato persino il più lontano, isolato, rozzo, ottuso
guerrigliero talebano. Non era così all'inizio, in Vietnam. Quella guerra fu vinta solo da una
stampa convintamente contro il sistema militare. Non che i corrispondenti fossero più preparati o più coraggiosi o più attenti o più bravi di quelli che avrebbero seguito le guerre successive. Il
fatto è che la sprovvedutezza del potere militare, allora ancora poco consapevole della forza dei media, fu il migliore degli alleati
possibili. E quel primo round tra informazione ed esercito fu una vittoria decisiva per il giornalismo. L'ultima. Perché i militari hanno imparato in fretta la lezione: una stampa tenuta alla larga, oppure ben
ammaestrata, è la migliore garanzia per il successo militare. Le prove generali della grande censura che avrebbe portato diritto il
mondo dell'informazione verso la guerra invisibile, quella del Golfo, sono cominciate nel 1982: le Falklands. Tre mesi di guerra, mille morti, non un immagine. E poi l'invasione di Grenada, nel 1983, quando
fu permesso ai giornalisti di visitare l'isola caraibica solo dopo un attento lavoro di ripulitura delle tracce di quel che era accaduto.
Così, fino alla Guerra del Golfo: 1991. Quel che è rimasto, di quei giorni, sono i fuochi artificiali verdi e sempre uguali nella notte di Baghdad; Peter Arnett appollaiato sotto una parabola; qualche
corrispondente dietro una ridicola maschera antigas.
Dopo il Golfo, l'ipotesi che da tempo dava per spacciato il ruolo dell'inviato di guerra, sepolto dalla prepotenza delle immagini televisive, sembrava solo trovare continue conferme. Il conflitto jugoslavo ha invece ribaltato tutte le prospettive. Nei Balcani, l'enorme quantità di immagini trasmesse dalla televisione o raccontate dalla stampa ha provocato, inaspettatamente, per la prima volta, l'indifferenza paradossale di un pubblico presto assuefatto allo spettacolo della guerra in onda tutte le sere, puntuale all'ora di cena, in testa al telegiornale. Nello stesso tempo, toccava arrendersi di fronte all'incapacità di tutte quelle immagini di spiegare alcunché. La guerra più vista della storia continuava ad essere un film incomprensibile, senza inizio, senza fine, senza buoni e senza cattivi.
Una telenovela dell'orrore manipolata con abilità da chi l'aveva voluta. Perché Milosevic una cosa l'aveva sicuramente capita: che il nostro voyeurismo televisivo equivale a perfetta cecità.
I giornalisti, in Bosnia, in Kosovo, raccontando la verità, hanno finito con l'essere strumento del falso. Per questo, gli inviati di guerra, nei Balcani, sono arrivati a maturare l'unico modo possibile per raccontare il conflitto: il disvelamento quotidiano della mistificazione. E per questo tanta parte, nel raccontare quella guerra,
hanno avuto i media indipendenti, meno vincolati al dover-esserci e dover-raccontare la scena, più liberi di correre dietro ai motivi, che non stavano, necessariamente, sotto le bombe o sopra le fosse.
È il bagaglio di vissuto con cui i giornalisti si sono ritrovati a combattere, sì, combattere, quest'ultima guerra in Afghanistan. Nel 1996, quando i taleban entrarono a Kabul, come primo provvedimento pensarono bene di sigillare gli edifici della televisione nazionale; distruggere tutti gli archivi audio e video e tutte le apparecchiature; potenziare, per converso, i ripetitori della radio: propaganda ufficiale e lettura del Corano. La stampa locale, una decina di pubblicazioni, è stata posta sotto il controllo del regime. Il lavoro dei giornalisti stranieri, se autorizzato, è sempre stato vincolato a una rigidissima teoria di controlli. Trasgedire, prima della guerra, significava, nella migliore delle ipotesi, venire espulsi: dal 1996, una trentina di corrispondenti stranieri sono stati arrestati dai miliziani, e rilasciati dopo maltrattamenti e pressanti interventi dei governi stranieri. Adesso, con la guerra, secondo la progressione di una logica malata, il controllo sui giornalisti disubbidienti è molto più facile: vanno ammazzati, punto e basta. Di faccende complicate come la libertà di pensiero e di stampa e l'esercizio di qualcosa che assomigli vagamente alla democrazia, si incarichi pure il nuovo
governo. Se ci riuscirà.

Barbara Uglietti