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IL RETROSCENA
Una cortina fumogena che potrebbe aiutare i resti del regime
Già in passato Osama scomparve dall’Arabia Saudita e poi dal Sudan poco prima di essere arrestato

Quando Osama si trova in difficoltà «scompare». Quasi volesse togliere il disturbo all’ospite. Il suo passato è costellato di queste sparizioni. Alcune vere, altre false. Se ne va dall’Arabia Saudita dopo l’assalto di un gruppo di estremisti alla Mecca. Se ne va dal Sudan quando la sua presenza diventa ingombrante.

LA TRATTATIVA - I talebani sono stati più volte sul punto di tradire l’uomo che li ha trascinati in questa situazione disperata. Nel 1997 Bin Laden è di fatto in stato di fermo, un’ala del regime afghano è pronta a consegnarlo ai sauditi. Ma Riad prende tempo: per noi non è ricercato. Il mullah Omar chiude la partita dicendo: «Sei uno di noi, dunque resti tra noi». Due anni più tardi la situazione si ripete. Il 13 febbraio i talebani annunciano di aver perso il contatto con Osama. «Ha lasciato Kandahar, non sappiamo dove sia». E’ solo una manovra per non imbarazzare il mullah Omar: dopo qualche giorno infatti Al Qaeda lancia pesanti minacce.

LA MALATTIA - Nella primavera del 2000, i talebani e i pakistani aprono una trattativa con Washington per sbarazzarsi di Bin Laden. Tornano le voci su una scomparsa, si aggiungono quelle di una grave malattia. La soluzione ideale, sostengono a Islamabad, sarebbe «la morte per cause naturali».

LA GUERRA - Dopo le stragi delle Torri gemelle e del Pentagono, i talebani rilanciano il ritornello. «Osama ha lasciato l’Afghanistan, non sappiano dove sia». Poi ricompare nel celebre video registrato da Al Jazira . Ieri altro giro. «Se ne è andato con moglie e figli», annunciano. Quindi smentiscono: «E’ ancora da noi». Si attribuisce «l’errore» alla traduzione. Una cortina fumogena di dichiarazioni che aiuta il super ricercato, ma che potrebbe rivelarsi utile a ciò che resta del regime per mettere fine alla collaborazione.

IL NUMERO TRE - Lo schema, un po’ troppo abusato per essere preso sul serio, è ripetuto con Mohammed Atef, numero tre di Al Qaeda. Venerdì sera era morto, ieri sarebbe resuscitato. «E’ vivo, sta bene», assicura un portavoce in turbante. Più cauti, dopo i bollettini di vittoria, gli americani. Difficile controllare, l’assenza di un corpo e la mancanza di una identificazione certa favoriscono la controinformazione da entrambe le parti.

IL SUCCESSORE - Noi non sappiamo se Atef è passato a miglior vita, ma c’è chi ha già individuato il successore. Fonti israeliane sostengono che l’egiziano non era poi così importante e che in realtà l’apparato militare di Al Qaeda è da tempo in mano a Muhammad Ahmed Hamze, alias Abu Hamze. Opposte le valutazioni della Cia. La morte di Atef, se confermata, può avere serie conseguenze sull’armata del terrore.

LO SCIENZIATO - E’ sempre in circolazione e quindi in grado di agire Midhat Mursi, nome di guerra Abu Khabbab. Saudita di 60 anni, esperto in chimica, ha organizzato il laboratorio di Darunta, vicino a Jalalabad. Atef gli aveva affidato la missione di preparare Al Qaeda alla guerra non convenzionale. Quindi aveva creato una serie di centri dove preparare i mujaheddin a usare i veleni, gas venefici e forse un ordigno nucleare «sporco». I vicini lo chiamavano il «dottore» ma erano inquieti per gli esperimenti che faceva, protetto da una guarnigione di 300 miliziani arabi. «Una notte c’è stata un’esplosione - ha raccontato un abitante al quotidiano inglese Guardian - Sono saltati tutti i vetri. Allora abbiamo protestato e lui ha ridotto l’attività».

LE RETI - Il Pentagono sostiene che le cellule all’estero avrebbero perso i contatti con la casa madre. Ma non per questo vanno sottovalutate. I gruppi di fuoco potrebbero decidere azioni dimostrative per dare un segno di vitalità. L’azione delle polizie europee ha certamente messo sulla difensiva i gruppi estremisti. Nell’ultimo mese arresti hanno decimato l’apparato logistico in Italia, Francia, Germania e Spagna. E il timore di nuove retate avrebbe indotto alcuni «ufficiali» di Al Qaeda nascosti nelle nostre città a cercare un nuovo rifugio. Per loro la terra scotta. La Turchia, i Paesi dell’Est europeo e il Sudamerica potrebbero offrire garanzie di sicurezza. Ma il problema è arrivarci.
 
Guido Olimpio