Corriere della Sera 01/12/2001
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IL CASO

La terribile eredità del sogno atomico di Tito
 

Il terrore nucleare «dorme» in una grande piscina alle porte di Belgrado. Lì, in una vasca di duecento metri cubi, vengono conservati quasi 60 chili di uranio altamente arricchito che tormentano gli investigatori di tutto il mondo. Sono l’eredità più scomoda dei piani atomici avviati da Tito all’inizio degli anni Sessanta: due reattori costruiti nell’istituto di ricerche Vinca, un complesso di palazzine circondate dal verde. Il materiale fissile venne fornito dall’Urss nel 1973, ma fu utilizzato in minima quantità e poi sommerso in attesa di deciderne la destinazione finale. Più volte durante le ultime guerre balcaniche è scattato l’allarme: i trenta contenitori speciali con la sostanza radioattiva potrebbero venire trafugati. La prima segnalazione risale al 1997, ma è stato il conflitto del Kosovo a rendere drammatica la situazione. Fu diffusa la notizia di un bombardamento americano su uno dei depositi di Vinca, ma la Nato smentì: «Il posto più vicino che abbiamo colpito è lontano chilometri». Anche gli ispettori internazionali della Iaea confermarono l’assenza di danni, ribadendo però le preoccupazioni sulla sicurezza dell’impianto: non c’erano nemmeno delle telecamere, l’unica difesa era affidata a una manciata di poliziotti. E questo in un Paese dove criminalità e corpi paramilitari erano già potentissimi: nessuno può escludere che nell’ultimo decennio alcune barre siano già state portate via, con la forza o con la corruzione. Anche perché parte dei programmi nucleari dell’era Milosevic è sempre rimasta segreta. In teoria, con l’uranio di Vinca si possono costruire due bombe «a implosione» o una testata nucleare per cannone. Ma l’esistenza di progetti militari è molto discussa. L’Agenzia internazionale li ha sempre ritenuti improbabili, mentre il segretario generale della Nato Robertson un anno fa li ha confermati. In realtà, nessuno teme che dalla ex Jugoslavia possa arrivare un «vero» ordigno nucleare: il pericolo sono gli ingredienti per una bomba «sporca», una testata che disperda nell’aria micidiali scorie radioattive. E che può essere assemblata senza laboratori sofisticati: l’ideale anche per i sogni apocalittici di Osama Bin Laden.
L’esercito di Belgrado disponeva delle capacità per costruire armi simili, applicando anche le tecnologie sviluppate per le testate chimiche. In particolare, erano stati prodotti sistemi di innesco molto evoluti, utilizzabili in entrambi i settori: forse i misteriosi contenitori sequestrati dai carabinieri e definiti da alcune fonti «esplosivo ceramico». E tutti i servizi segreti sono concordi nell’indicare le armi chimiche come la principale minaccia nascosta in Bosnia. Durante la terribile guerra civile tutti i contendenti ne hanno utilizzate, attingendo anche alla scorta dell’armata federale. Prima del ’92 la sperimentazione era concentrata nell’istituto di Potoci, a pochi chilometri da Mostar, nella zona croata della Bosnia, ma gran parte delle riserve venne trasferita in Serbia alla vigilia del conflitto. L’arsenale dei veleni era sterminato: migliaia di razzi con iprite e gas nervino; proiettili per cannone e per mortaio con il sarin, quello degli attacchi nella metropolitana di Tokio; c’erano persino bombe a mano con una sostanza paralizzante. E durante il conflitto i tecnici di Potoci si dispersero a seconda delle etnie, distillando armi chimiche anche per croati e musulmano-bosniaci: strumenti di morte che oggi chiunque può acquistare.
 
Gianluca Di Feo