IL CASO
La
terribile eredità del sogno atomico di Tito
Il terrore nucleare
«dorme» in una grande piscina alle porte di Belgrado. Lì,
in una vasca di duecento metri cubi, vengono conservati quasi 60 chili
di uranio altamente arricchito che tormentano gli investigatori di tutto
il mondo. Sono l’eredità più scomoda dei piani atomici avviati
da Tito all’inizio degli anni Sessanta: due reattori costruiti nell’istituto
di ricerche Vinca, un complesso di palazzine circondate dal
verde. Il materiale fissile venne fornito dall’Urss nel 1973, ma fu utilizzato
in minima quantità e poi sommerso in attesa di deciderne la destinazione
finale. Più volte durante le ultime guerre balcaniche è scattato
l’allarme: i trenta contenitori speciali con la sostanza radioattiva potrebbero
venire trafugati. La prima segnalazione risale al 1997, ma è stato
il conflitto del Kosovo a rendere drammatica la situazione. Fu diffusa
la notizia di un bombardamento americano su uno dei depositi di Vinca,
ma la Nato smentì: «Il posto più vicino che abbiamo
colpito è lontano chilometri». Anche gli ispettori internazionali
della Iaea confermarono l’assenza di danni, ribadendo però le preoccupazioni
sulla sicurezza dell’impianto: non c’erano nemmeno delle telecamere, l’unica
difesa era affidata a una manciata di poliziotti. E questo in un Paese
dove criminalità e corpi paramilitari erano già potentissimi:
nessuno può escludere che nell’ultimo decennio alcune barre siano
già state portate via, con la forza o con la corruzione. Anche perché
parte dei programmi nucleari dell’era Milosevic è sempre rimasta
segreta. In teoria, con l’uranio di Vinca si possono costruire due bombe
«a implosione» o una testata nucleare per cannone. Ma l’esistenza
di progetti militari è molto discussa. L’Agenzia internazionale
li ha sempre ritenuti improbabili, mentre il segretario generale della
Nato Robertson un anno fa li ha confermati. In realtà, nessuno teme
che dalla ex Jugoslavia possa arrivare un «vero» ordigno nucleare:
il pericolo sono gli ingredienti per una bomba «sporca», una
testata che disperda nell’aria micidiali scorie radioattive. E che può
essere assemblata senza laboratori sofisticati: l’ideale anche per i sogni
apocalittici di Osama Bin Laden.
L’esercito di Belgrado disponeva delle
capacità per costruire armi simili, applicando anche le tecnologie
sviluppate per le testate chimiche. In particolare, erano stati prodotti
sistemi di innesco molto evoluti, utilizzabili in entrambi i settori: forse
i misteriosi contenitori sequestrati dai carabinieri e definiti da alcune
fonti «esplosivo ceramico». E tutti i servizi segreti sono
concordi nell’indicare le armi chimiche come la principale minaccia nascosta
in Bosnia. Durante la terribile guerra civile tutti i contendenti ne hanno
utilizzate, attingendo anche alla scorta dell’armata federale. Prima del
’92 la sperimentazione era concentrata nell’istituto di Potoci, a pochi
chilometri da Mostar, nella zona croata della Bosnia, ma gran parte delle
riserve venne trasferita in Serbia alla vigilia del conflitto. L’arsenale
dei veleni era sterminato: migliaia di razzi con iprite e gas nervino;
proiettili per cannone e per mortaio con il sarin, quello degli attacchi
nella metropolitana di Tokio; c’erano persino bombe a mano con una sostanza
paralizzante. E durante il conflitto i tecnici di Potoci si dispersero
a seconda delle etnie, distillando armi chimiche anche per croati e musulmano-bosniaci:
strumenti di morte che oggi chiunque può acquistare.
Gianluca Di Feo