GDM 14/01/2002
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Quella pericolosa «boccata d'aria»
MICHELE PARTIPILO
Negli anni '70, dopo che gli sceicchi del
petrolio appiedarono mezzo mondo, l'Occidente industrializzato cominciò
a chiedersi con preoccupazione per quanti anni ancora l'oro nero sarebbe
bastato a soddisfare le esigenze dello «sviluppo». Esperti
e studiosi si lanciarono in stime (50-100 anni di disponibilità)
e studi di progetti per sfruttare energie alternative. In realtà
si fece ben poco: attraverso la politica si riuscì ad addolcire
gli sceicchi; attraverso la tecnologia si cominciò a sostituire
il petrolio con il nucleare, con il gas e addirittura con il carbone.
Se tutti si chiedevano fino a quando poteva
bastare il petrolio all'uomo, in pochissimi si chiesero fino a quando l'uomo
avrebbe potuto resistere al petrolio.
È bastato qualche decennio, perché
tutti drammaticamente venissimo a contatto con una realtà che pensavamo
vivesse solo negli incubi di qualche ambientalista. Il quadro della situazione
è purtroppo molto chiaro: stiamo cominciando a vivere gli effetti
delle mutazioni che le attività umane hanno già prodotto
sulla cara vecchia Terra.
Il primo e più evidente degli effetti
visibili - anche alle nostre latitudini - è lo sconvolgimento climatico.
Le stagioni medie vanno velocemente scomparendo per lasciare spazio ai
fenomeni estremi. Non c'è più la pioggia, ci sono le alluvioni;
non c'è più la nevicata, c'è la bufera; non c'è
più il sereno, c'è la siccità. Quello che l'uomo ha
rotto con il suo intervento è l'equilibrio fra gli elementi.
Giornate serene e piene di sole vengono
definite nel linguaggio comune come «bel tempo» perché
l'uomo, nella sua idiozia di voler dominare la natura, ha decretato che
è bello ciò che piace a lui. Oggi comprendiamo che non è
così: un prolungato bel tempo sulla nostra penisola sta facendo
emergere situazioni allarmanti. L'assenza di venti fa ristagnare fumi e
polveri e molte città sono ormai camere a gas dove bisogna bloccare
almeno la circolazione delle auto e forse spegnere anche qualche termosifone.
L'assenza di piogge sta mettendo in ginocchio
l'agricoltura: pomodori, rape o zucchine costano ormai come il caviale.
E se l'acqua manca in Puglia, potremmo dire che è anche un fenomeno
«normale» perché da sempre la nostra regione è
sitibonda. Ma l'acqua manca anche in Piemonte, dove - ci insegnavano a
scuola - si coltiva il riso perché c'è (c'era) una straordinaria
ricchezza di canali, fiumi, laghi e torrenti. Addirittura in montagna rifugi
e alberghi stanno cominciando a chiudere: non c'è neve per sciare,
ma non c'è neppure acqua per cucinare e per lavarsi. Loro non hanno
mai avuto bisogno di invasi, cisterne o autoclavi: l'acqua arrivava sempre
dal cielo e sempre più di quanta ne fosse necessaria. È chiaro
che oggi non sanno cosa fare.
Già, che fare. A Kyoto tutti i
paesi industrializzati nel 1997 riuscirono a mettersi d'accordo su una
serie di interventi da attuare per ridurre l'emissione di inquinanti nell'atmosfera.
Oggi, cinque anni dopo, bisogna constatare che nessuno dei firmatari di
quel «protocollo» ha rispettato gli impegni che aveva sottoscritto.
Anzi, il presidente Bush, pressato dalle lobby petrolifere, come primo
atto del suo governo ha cancellato i limiti che erano stati imposti alle
industrie per quanto riguarda le emissioni inquinanti. Ci sono poi paesi
- come l'India o la Cina - che solo oggi vedono l'avvio di una rivoluzione
industriale che potrà portare livelli di benessere (?) che noi conosciamo
da tempo e che quindi non sono disposti a interrompere per nessuna ragione
al mondo.
Ma gli effetti non sono solo lo sconvolgimento
delle stagioni o la desertificazione - a proposito gli esperti dicono che
nel giro di 20/30 anni la Puglia sarà più o meno come il
Sahara - c'è anche l'atmosfera irrespirabile. Siamo al punto che
«prendere una boccata d'aria» può significare accorciare
la nostra vita di qualche lustro. I dati sulla diffusione dei tumori e
sui morti da tumore sono in crescita esponenziale. Per cui oltre alla domanda
«che cosa possiamo fare per ridurre l'inquinamento in Italia?»
siamo di fronte anche a un altro e ben più grave interrogativo:
è giusto che un cinese o un indiano continuino ad andare in bicicletta,
mentre io occidentale devo continuare a spostarmi in automobile? Cioè,
la disperata corsa verso l'autodistruzione della millenaria civiltà
terrestre chi deve cominciare a fermarla?
È antipatico porsi questi interrogativi
a quattro mesi dall'attacco alle Torri gemelle. Ma non abbiamo la possibilità
di rinviarli a tempi migliori, perché il conto alla rovescia è
cominciato da un bel po'.