LA SICILIA 25/02/2002
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I limiti di una lotta
Terrorismo contro il terrorismo

di Giuseppe Giarrizzo
Monta inarrestabile l'orrore: i conflitti che rendono vieppiù instabile l'area geopolitica dell'Afghanistan liberato, le tensioni indotte dalle minacce americane Iraq ed Iran «agenti del Male planetario», ed ora l'esecuzione filmata del giovane reporter americano conferiscono colori ancor più lividi alla guerra che il governo d'Israele conduce sotto l'ombrello della «lotta al terrorismo», con tratti brutali da guerra civile nella sospensione di ogni garanzia internazionale e decidendo senza riscontri dei «terroristi» da eliminare o imprigionare. Trovo insopportabile l'ipocrisia che chiede garanzie per i deportati di Guantanamo, e non sembra porre limiti alla guerra senza quartiere che Sharon porta – in termini conclamati di vendetta e ritorsione – nelle zone già attribuite al regime di Arafat. E io trovo ancor più disgustoso quando apprendo del nulla-osta di Bush all'iniziativa dell'Ue (e l'Europa ringrazia!) per una mediazione in Palestina, caratterizzata però dalla non collaborazione degli Usa e dall'aperto sostegno, politico ed economico, degli Stati Uniti alla «sporca guerra» di Sharon.
Si dice che gli Stati Uniti non possono «abbandonare» il lor principale alleato in Medio Oriente nella guerra imminente contro l'Iraq e l'Iran – regimi illiberali e perciò generatori di terrorismo. Ma (domanda retorica?) sarebbero liberali i regimi di Siria, Egitto, Algeria, Arabia Saudita o Kuwait? V'ha chi scommetta, dopo gli scontri India-Pakistan, e l'eterna questione del Kashmir (ove par si nasconda l'inafferrabile Bin Laden), sulla normalizzazione democratica del Pakistan ad opera del rafforzato potere militare interno di Musharraf «levantino»? Ma non ci siamo scordati anche noi, dopo il ritorno alla grande dei capitali libici nel mercato italiano ed europeo, delle concitate campagne americane ed inglesi contro la Libia di Gheddafi?
E l'elenco potrebbe continuare... Ma non sarò tanto ingenuo da sottolineare queste contraddizioni della politica post-imperialista per denunciare i limiti della moralità, umana e giuridica, della «Realpolitik». Se insisto nel dichiarare allarme e disgusto nei confronti della ipocrisia, che ammanta di candore causidico la lotta terroristica al terrorismo, è per due preoccupazioni che poco avvertite nel bel Paese – già investono il senso comune dell'Europa politica: la prima minacciato (da chi?) disimpegno europeo, che rendono vieppiù confusa ed impotente una politica estera dell'Ue ancora tutta da fare dietro le dichiarazioni di facciata. E gli Usa privilegiano frattanto la Cina sulla Russia che lasciano agli abbracci europei (Cecenia compresa): tanto a far da sentinella di quel che rimane – poco più che carta straccia – del vecchio Patto atlantico sta il fedele Blair, pronto a fare e disfare direttori disgreganti. E mi attendo, ove la recessione degli Usa dovesse (come si teme) durare, un altero predicozzo di Bush, variamente condito di gaffes, che rivolga all'Europa dell'Euro le critiche ed i consigli ammanniti al Giappone in difficoltà.
Già il Giappone! Ma v'ha qualcuno che abbia, nelle recenti commemorazioni del decennio di Mani pulite (uno spettacolo non sempre esaltante), commisurato l'impatto devastante della corruzione politico-finanziaria che sta alla base del disastro argentino e della crisi nipponica con lo scampato pericolo dell'Italia «salvata» da Mani pulite e dai governi di risanamento e di austerità «europea», da Amato a Ciampi? A che serve la globalizzazione se non riusciamo a guardare fuori dalla nostra piccola parrocchia, e se l'impotenza degli storici nostrani (in attesa di qualche mediocre storico inglese o americano da tradurre) si somma alla stupidità liturgica dei nostri politici? È proprio vero che di quella stagione, che conobbe un'altissima tensione etico-politica, non si possa ancora dar storia?
Eppure questo sfogo non basta a far digerire il tossico dell'impotenza europea, lasciata ad attender nell'anticamera degli Usa. V'ha ancora un fondo del bicchiere la cui tossicità è letale se colpisce in modo irreversibile il midollo spinale dell'Europa «in progress», un'Europa che tra dubbi e tensioni viene nondimento elaborando nuovi valori di civiltà – una nuova idea di natura ed una nuova idea di umanità. Mi riferisco in particolare al processo dell'Aja contro Milosevic per il genocidio serbo, e agli argomenti non solo abili ma inquietanti dell'ex-uomo forte della grande Serbia. Ora il carattere strumentale di quegli argomenti è dato per scontato, e pur lo ritroveremo con affini argomenti nella propaganda antiterroristica da tempo avviata; ma il parallelismo che la difesa Milosevic propone tra il caso serbo e il caso israeliano resta impressionante, e – se positivi sviluppi non interverranno a breve nella crisi mediorientale (più ci s'attende però dalla visita di Mubarak a Washington che dall'impacciata iniziativa dell'Ue) – crescerà allora nella coscienza turbata dell'europeo medio il dubbio su una disparità di comportamento della Nato tra la liquidazione dei serbi per aver fatto terra bruciata, con brutalità ed efferatezza, attorno ai «terroristi» albanesi dell'Uck (è la tesi Milosevic, per cui la sua difesa chiama in causa i responsabili della politica estera degli Usa e dell'Ue), ed il sostegno o la comprensione per le ritorsioni israeliane che oppongono terrorismo a terrorismo, e mirano a costruire per un virtuale Stato palestinese dei regimi fantoccio da dover poi costantemente sostenere nell'inevitabile guerra civile e religiosa che si scatenerà con caratteri endemici negli attuali territori, siano presidiati o meno dalle enclave dei coloni oltranzisti.
Può darsi che Bush, nel sogno crociato di «enduring freedom», risulti insensibile a questo degrado sconvolgente della vita morale e delle tradizioni culturali dell'Europa; e che il modesto prestigio dell'Ue non ammessa alle stanze blindate dei consiglieri del fanatizzato presidente escluda l'ascolto da parte degli Usa degli alleati europei quando questi interpretano differenti interessi morali e gli allarmi dei loro paesi. L'Europa può trovarsi sull'orlo di un baratro morale che non ha precedenti, e di cui la dichiarata attività di centrali di disinformazione rende drammatico il rischio. Ma un'Europa così ridotta, incerta di sé ed in piena crisi di valori, non serve da supporto etico-politico e neppur militare alla giusta causa della lotta al terrorismo: non ci sono a quelle trappole mortali altre vie d'uscita fuor della conquista di uno spazio nuovo nel rapporto tra gli Usa e l'Ue, ed una rapida composizione del conflitto israeliano-palestinese. Il tempo degli appelli è scaduto da mesi, la stessa propaganda logora e ripetitiva persuade solo i pochi che vogliono esser persuasi, cresce come un fiume in piena l'onda del dubbio. Aspettando e speriamo che alle liturgie impotenti, accresciute dai pasticci incompetenti dei politici nostrani, seguano a breve proposte chiare, efficaci e concordate. Altrimenti la condanna già scritta di Milosevic non sarebbe l'inizio da tutti auspicato di una giustizia giusta in nome dei diritti umani offesi, bensì un episodio penoso da dimenticare – mentre insorge di conseguenza nel mondo slavo una domanda di chiarezza e di dialogo che ove fosse ignorata o intercettata avrebbe conseguenze che non siam neppure in grado di prevedere. Si pensi soltanto all'effetto di contagio in Africa ed in Asia, e all'espansione dell'antiamericanismo che procede, nelle masse e nella cultura, con rapidità almeno pari all'impegno diplomatico degli Usa a federare «governi amici».
Da sempre, nell'Europa libera, la forza morale è consistita nel segnare con rigore inflessibile i modi e i tempi dello «stato di eccezione», e nel rifiuto di rispondere con mezzi sporchi alle altrui guerre sporche, con metodi illiberali agli assalti del terrorismo. «Enduring freedom» non può in un mondo globale esser un capitolo della guerra perenne, e sarebbe tragico per l'umanità se il nuovo ordine mondiale si fondasse (come voleva il nazista Carl Schmitt) nella ricerca perenne di un «nemico» da distruggere.
Giuseppe Giarrizzo