Reportage da un
Paese distrutto dalle sanzioni. E con la minaccia di una nuova guerra
Stritolati dall'embargo
Luka Faccio
Iraq, un popolo ridotto a vivere con due dollari al mese
Baghdad - nostro
servizio
Vent'anni di guerra,
dieci anni di sanzioni più di un milione e mezzo di vittime, un
paese completamente alla rovina, la pattumiera nucleare della penisola
araba.
Può sembrare la trama di un film hollywoodiano dove i buoni vincono sempre ma purtroppo non è così, è l'esatta fotografia dell'Iraq, un paese che viene penalizzato dalla comunità internazionale e dall'Onu con un embargo che non solo uccide innocenti, ma rafforza il potere di Saddam Hussein. Da più di undici anni l'articolo 661 (che viene puntualmente ogni sei mesi rivotato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) regola la vita degli iracheni, una volta popolo ricchissimo, ora ridotto a sopravvivere con due dollari al mese con un'inflazione che è una delle più alte del mondo.
Bambini senza futuro
Per le strade di
Baghdad l'insofferenza del popolo iracheno è visibile, palpabile.
Centinaia sono i bambini costretti a dormire nei parchi, molti di loro
sniffano la colla per alleviare, almeno con la droga chimica, il terribile
stato di abbandono. Per loro non c'è cibo, scuola, famiglia. Il
centro di Baghdad ha mantenuto il suo stile opulento, con le sue piazze
sempre verdi pulite, con l'immancabile monumento a Saddam Hussein, ma appena
ci si inoltra nella periferia la storia cambia.
Le immagini di Saddam
Hussein si fanno sempre piu belligeranti, lì dove tre anni orsono
è stata schiacciata col sangue una ribellione di rione. Saddam city
si chiama ufficialmente, i soldati hanno paura di attraversare le strade,
lì la fame si è fatta più grande della paura, per
gli occidentali rimane area off-limits. I programmi Onu sono solo sulla
carta, per le strade vige la regola quasi animalesca della sopravvivenza:
il più forte sopravvive, il più debole deve morire.
Un omicidio di massa
La Baghdad da mille
e una notte è in realtà la città dell'incubo. Negli
ospedali si celebra il dramma di un vero e proprio omicidio di massa: bambini
che già dalla nascita al posto del cervello hanno solo un grande
tumore, leucemie. Tutto grazie alla guerra di liberazione del Kuwait che
ha portato migliaia di minibombe all'uranio impoverito che - a distanza
di undici anni - fanno ancora vittime. Le donne ci raccontano che in questa
situazione un bambino non normale è quello che nasce sano, le medicine
per alleviare almeno il dolore sono troppo care e si trovano solo al mercato
nero. Per assurdo esistono ancora gli autorivenditori con le Mercedes ultimo
modello, auto da sogno anche per noi europei, quasi a confermare che il
divario tra ricchi e poveri in Iraq va oltre il pensabile e tutto grazie
a sanzioni che non indeboliscono Saddam Hussein ma creano solo vittime
nella popolazione.
Un lascito di morte
Oil for Food. Questa
è la definizione usata dall'Onu per il programma delle sanzioni
all'Iraq colpevole di non lasciare entrare gli ispettori dell'Onu per il
controllo delle armi di distruzioni di massa. Quelle stesse armi, ironia
della sorte, che gli Stati Uniti - già in Iraq, Serbia e in Kosovo
- hanno ampiamente e impunemente utilizzato. I dati e le statistiche parlano
chiaro: tra le 400 e le 500 tonnellate di materiale radioattivo - per lo
più uranio 238 - sono state fino ad oggi ritrovate nel suolo del
sud Iraq con inimmaginabili conseguenze per l'ambiente (acqua contaminata,
superfici agricole non più utilizzabili). E ancora, più del
120 per cento, la percentuale di aumento dei casi di cancro e leucemia
infantile; l'industria completamente messa in ginocchio per l'embargo,
e in più la prospettiva di una nuova crisi militare. L'inflazione
cresce di ora in ora per non far collassare l'economia, è stato
deciso di non aumentare i salari garantendo comunque sanità e formazione
gratuita per tutti i cittadini.
A Bassora, la città che più di tutte è diventata la Cernobyl della penisola araba, sembra tutto normale. Chiese cattoliche e protestanti fanno da cornice a questa città multireligiosa, i mercati sono sempre pieni di persone che dai villaggi circostanti vengono in città per vendere quel poco che si può ancora piantare (per lo più patate e riso) sulla sponda del fiume Shat al Arab. In giro i soldati che puntano il dito verso l'Iran, l'eterno amico-nemico iracheno; pochi i pescatori. Nulla è più commestibile in queste acque, nei caffè tra musiche orientali e chai (il the) siede solo chi guadagna il possibile per permettersi di bere qualcosa. I militari sono ancora più visibili che nella capitale, si ha la sensazione di essere vicini al fronte, ma un fronte invisibile di una città contaminata che continua a contare le sue vittime di guerra pur essendo già passati più di dieci anni dall'ultima operazione militare in Iraq (anche se ci sono le quotidiane incursioni dei caccia angloamericani).
La minoranza sciita, che qui ha combattuto per un pezzo di libertà, ha avuto come sostegno dalle forze Usa le bombe all'uranio, i segni di quelle battaglie quasi casa per casa sono ancora visibili nel blasonato hotel Sheraton. La gente non parla volentieri di politica, ai loro occhi Saddam Hussein è quasi un dio, la paura è più grande della voglia di parlare di quel tentativo di insorgere contro il rais: nessuno ne parla, come se non fosse successo niente. Il 28 aprile, giorno del compleanno di Hussein, le strade della capitale si sono rempite di musiche e danze, forse l'unica manifestazione autorizzata da Saddam Hussein che, nel suo lungo discorso televisivo di pochi giorni fa, regalava al suo popolo l'embargo petrolifero (preso anche in considerazione dall'Iran) contro i paesi che appoggiano Israele. E intanto il petrolio - unica fonte di ricchezza dell'Iraq - che non viene venduto in cambio di cibo viene venduto attraverso il mercato nero in Turchia aumentando così gli affari della nomenklatura.
Il bisogno di normalità
In questi giorni
si sono incontrate a Baghdad diverse delegazioni, una delle quali proveniente
dal Belgio con più di 130 persone di sedici diversi Stati europei,
molti i giornalisti. Segno di una apertura inconsueta dell'Iraq. Molto
è stato visto e discusso, gli incontri ufficiali con Tarek Aziz
e il ministro della Sanità hanno potuto dare un quadro completo
di come e in che misura le sanzioni incidano sul popolo iracheno. La volontà
di un raggiungimento della normalità si può leggere nelle
parole di Aziz, il quale conferma di voler collaborare con l'Onu ma senza
pregiudizi e in un dialogo serio, quasi a dire: «Ora tocca a Bush
compiere un atto distensivo».