Liberazione 23/05/2002
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E' crisi aperta tra i due storici nemici del Subcontinente. Con l'incubo dell'atomica
India e Pakistan verso la guerra
Ivan Bonfanti
 
A parole non la vuole nessuno, ma nemmeno a volerne immaginare i possibili effetti una guerra su larga scala tra India e Pakistan sembra poter portare benefici diretti a qualcuno, almeno non ai governi che all'oggi guidano i due storici nemici del Subcontinente. Eppure non è così semplice, e il vento che spira in queste settimane ai piedi dell'Himalaya e nella linea di confine che separa i due Paesi che dal 1947 si sono combattuti già tre volte è una brutta aria. Un'aria di guerra, che monta negli animi delle folle infiammate dal moltiplicarsi dei funerali e dalle passioni etniche e religiose, che dalle piazze rimbalza poi nelle dichiarazioni dei leader politici, quelli che gli animi dovrebbero stemperare e che rimangono invece imprigionati nel vortice. E il vortice, si sa, una volta in atto, non è detto che lo si riesca a fermare. Un'ariaccia che non si respirava da tempo neppure lì dove da trent'anni si spara quasi ogni giorno, che pian piano materializza quello che per tanti è un incubo, per altri un sogno e un obiettivo politico. Una guerra aperta, dagli effetti certamente devastanti, tra due potenze regionali armate con ordigni nucleari. Stavolta, stavolta per davvero, l'impensabile potrebbe accadere.

Missili in azione
Di ieri si parlerà come di un giorno di ordinari combattimenti lungo la linea verde che taglia in due il Kashmir. Di morti, di feriti, di colpi di mortaio e artiglieria, provocazioni aeree e navali, persino i missili terra-terra Millan sono entrati in azione di primo mattino, colpendo qualche bunker dell'armata pakistana (secondo New Delhi) o uccidendo (secondo Islamabad) una bimba di 10 anni presso Nakyal, regione dell'Azad Kashmir, nel settore controllato dal Pakistan. E come se non avessero parlato a sufficienza le armi, a gettare benzina sul fuoco ci si è messo anche il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee, del resto un nazionalista indù non propriamente incline al dialogo, che ha lanciato un attacco frontale al Pakistan. «Dovete prepararvi alla battaglia decisiva» ha detto Vajpayee, chiaro e tondo, mentre passava in rassegna le truppe schierate proprio in Kashmir. Il primo ministro ha parlato da Kupwara, nel Kashmir indiano, in un avamposto militare a meno di venti chilometri dal confine col Pakistan. «Siate pronti al sacrificio», ha detto il premier ai soldati, perché «è arrivato il momento di un'azione decisiva». Il primo ministro ha aggiunto che i "jihadi" (guerriglieri islamici) «mandati dal Pakistan sono mercenari che non combattono una guerra ma indulgono nella sovversione». Parole di fuoco, destinate a scaldare ancora gli animi, pronunciate mentre la Marina Militare indiana annunciava che cinque navi da guerra sono state inviate «a rafforzare lo schieramento nel Mar Arabico», cioè al largo delle coste pakistane.

Da Islamabad non si è fatta attendere la risposta di Musharraf. Presiedendo una riunione congiunta del suo governo e del Consiglio Nazionale della Difesa, del quale fanno parte generali ed esperti civili, l'uomo forte del Pakistan si è di nuovo tenuto in bilico tra l'esigenza di non confermare le accuse dell'India e la necessità di non dare l'impressione di debolezza di fronte ad una opinione pubblica già in ebollizione dopo le tante virate compiute dal presidente-golpista dopo l'11 settembre. «Il Pakistan si è sempre impegnato a fermare i terroristi - ha quindi argomentato il generale golpista - ma i nostri nemici devono sapere che il nostro Paese è pronto a difendersi, che respingeremo ogni attacco e che siamo pronti a fare uso di tutti i mezzi a nostra disposizione». Un riferimento esplicito all'uso dell'opzione atomica, vero incubo in caso di conflitto tra le due potenze regionali.

Nel tentativo di metterci una pezza sono in molti i diplomatici stranieri che in questi giorni fanno la spola tra le due capitali. Chris Patten, commissario agli esteri dell'Unione Europea, il vicesegretario di stato americano Richard Armitage e il segretario agli esteri della Gran Bretagna Jack Straw, che ha anche annunciato come, in seguito a non precisate «minacce contro gli interessi britannici in Pakistan», Londra ha richiamato in patria gran parte del suo personale diplomatico in Pakistan. Una mossa, quella inglese, che non è stata dettata tanto dalla presunta imminenza di una guerra con l'India, quanto dall'attività di gruppi islamici nello stesso Pakistan. E sono proprio alcuni di questi gruppi, nell'insieme tanti e diversificati, gli unici ad avere interesse all'eventuale confronto armato. Non solo i guerriglieri kashmiri, che al conflitto puntano apertamente e che ad Islamabad godono ancora di altissima considerazione, ma anche i fondamentalisti islamici legati ai taleban, fermamente intenzionati a far fuori Musharraf e speranzosi di vedere Islamabad costretta a spostare le sue truppe dalla frontiera afghana e dall'area tribale di Peshawar ai massicci kashmiri.

Incertezze strategiche
Ma quella spirale che rischia davvero di far andare il confronto fuori da ogni controllo ha molti fattori, non solo riconducibili alle "pulsioni" di due piazze storicamente calde e avverse fin dall'indipendenza dei due Paesi. Sul Subcontinente pesa l'incertezza strategica dei due protagonisti della politica regionale, la mancanza di "sfoghi" geopolitici per un Pakistan che, pur avendo salvato una buona influenza sull'Afghanistan, rimane stretto tra l'ombra della Cina e l'aggressività di New Delhi. Per non parlare dell'India, che dopo l'11 settembre si aspettava (con un po' di strabismo politico considerata l'importanza assunta dal Pakistan per Washington) un riconoscimento alla sua personalissima "guerra al terrorismo", come a New Delhi viene chiamato il conflitto in Kashmir. Il tornaconto non è arrivato, e la piazza preme. Scenari nazionali a cui si somma la debolezza e l'isolamento interno di Musharraf, le elezioni dietro l'angolo in India, le tensioni inter etniche all'interno della nazione indiana e l'influenza dei militari, comprese le valutazioni tattiche su due dottrine nucleari che sono differenti (e come tali più pericolose).

Tutto pesa in questa estate di caldo che soffoca, nel calderone del Subcontinente. Due Paesi si preparano a combattersi senza vedere al di là della battaglia, senza immaginare una conclusione ideale, senza un obiettivo politico, nemmeno immediato. Se si andrà al conflitto all'inizio sarà convenzionale, ma le forze sono impari e per entrambi i governi non c'è altra scelta che vincere. E la tentazione del primo colpo può davvero sedurre.