IL MANIFESTO   13 Gennaio 2002
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In battaglia armati di provette
"L'incubo dell'untore. Guerra e terrorismo biologico". Un libro sulla storia e sulla diffusione di ordigni tanto micidiali quanto economici scritto dalla giornalista scientifica inglese Wendy Barnaby
FRANCESCO PICCIONI

Il lato occidentale del mondo si è svegliato dalla lunga sbornia ottimistica degli anni '90 per trovarsi di nuovo scagliato in una valle di lacrime e incubi. Vien da pensare che ci fosse molto di sbagliato - e di irresponsabile - nel primo atteggiamento. Ma non si può davvero dire che manchino motivi di preoccupazione per il presente e l'immediato futuro. La guerra infinita e asimmetrica di George Bush promette anni e anni di conflitto bellico senza più confini, sovranità statuali, limiti "morali" e distinzioni tra vittime civili e militari. Altrettanto fa il terrorismo integralista, perché proprio questa è l'essenza di una "guerra asimmetrica": tutto può diventare un'arma, tutto va bene pur di piegare il nemico. Ma soprattutto, chiunque e dovunque e in qualsiasi momento può diventare un nemico. Che lui lo sappia o meno.
Lo si è visto non solo l'11 settembre. E nei giorni successivi, con l'esplodere del panico negli Usa in seguito alla spedizione di un certo numero di lettere contenenti spore di antrace, il batterio che provoca il carbonchio, si è avuta una sorta di prova generale. Una popolazione civile - quella Usa - abituata da 150 anni a pensare la guerra come un evento da giocare altrove, con i propri militari ma sulla pelle di altre popolazioni civili, si è in un sol colpo ritrovata con la guerra in casa. E a non sapere più che cosa possa diventare un'arma; né in mano a chi. Chimica, biologia, trasporto aereo hanno assunto altre valenze, fortemente minacciose. La psicosi che ne è derivata negli Usa è quella del "nemico tra noi", pronto a spargere morte in modi insospettabili, per motivi che non si cerca neppure di indagare.
In tempi di guerra, i libri di guerra tornano a riempire gli scaffali. L'incubo dell'untore. Guerra e terrorismo biologico (Fazi editore, L. . 28.000) è tra i primi testi sull'argomento "guerra biologica" post-Twin towers ad arrivare in libreria. Scritto da Wendy Barnaby, nota giornalista scientifica inglese, rapidamente aggiornato per far fronte al nuovo clima post-11 settembre, affronta con dovizia di informazioni il piccolo universo delle minacce invisibili alla vita civile. Il primo dato, non nuovo, che balza immediatamente agli occhi è il costo estremamente basso di molte delle armi di distruzioni di massa. La Barnaby cita addirittura un rapporto Onu del '69 secondo cui "per un'operazione su larga scala contro una popolazione civile, le perdite inflitte potrebbero costare circa duemila dollari a chilometro quadrato con l'uso di armi convenzionali, ottocento con le armi nucleari, seicento con i gas nervini, soltanto un dollaro con le armi biologiche". Un grande paese capitalisticamente avanzato, magari con problemi di sovraproduzione, avrebbe tutto l'interesse a usare il tipo di armamento più costoso, facendo così contenti contemporaneamente generali e industrie. Ma piccoli paesi con pochi soldi non dovrebbero avere altra scelta che le meno costose. In teoria. In pratica, finora, le cose sono andate diversamente. Anche i paesi poveri hanno i loro generali e le loro industrie, o almeno i loro fornitori.
Ma il basso costo di queste armi significa anche che sono sufficienti pochi mezzi e nozioni scientifiche non più d'avanguardia per produrle. La Barnaby condivide il timore che a questo punto possano esser messe insieme anche da "organizzazioni non governative", stile Al Qaeda. Ma soprattutto constata che, rispetto all'uso di mezzi di distruzione di massa, ci sia ormai un numero crescente di soggetti disposto a superare i vecchi "limiti morali" che fin qui ne hanno impedito l'uso. E' un punto di vista forse un po' troppo tenero con la lunga storia militare dell'occidente nei confronti delle "popolazioni inferiori" (anche se ricorda la "guerra biologica" inglese contro i pellerossa d'America, a colpi di vaiolo). I "limiti morali" erano semplicemente stati trasformati in ipotesi di accordo internazionale contro la proliferazione delle armi chimiche e biologiche, che almeno congelavano gli arsenali esistenti già in mano alle potenze maggiori, ritenute - per questo solo motivo - più "responsabili". Ma proprio l'amministrazioe Bush, ricorda la Barnaby, ha "affossato sette anni di laboriosi negoziati volti a eliminare" questo tipo di armi. L'irresponsabilità, duque, si va diffondendo a cerchi concentrici, a partire dai "più responsabili".
La via d'uscita da questa spirale sembra chiusa. L'autrice si appella all'etica degli scienziati, perché si rifiutino di collaborare ai programmi militari di questa natura. Una speranza, più che un'indicazione in grado di modificare il ritmo o la direzione della corsa verso il nulla. Non mancano, nella storia della scienza, luminosi esempi di ricercatori che rinunciano a carriera e onori pur di non esser coinvolti nella fabbricazione di ordigni micidiali. Ma il numero dei "collaborazionisti" è purtroppo enormemente più alto.