IL MANIFESTO Dicembre 2001
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La costruzione della «coalizione contro il terrorismo»
Gioco triangolare fra Washington, Mosca e Pechino

Sarebbe sbagliato interpretare la costruzione da parte degli Stati uniti di un'ampia coalizione internazionale contro il terrorismo come il segno di una strategia multilaterale. Washington sembra invece sempre più lanciata sulla strada dell'«unilateralismo», stabilendo da sola le «missioni» militari e politiche della sua guerra, senza consultare né coinvolgere direttamente i suoi alleati. Da ciò il sottile gioco a tre con Mosca e Pechino, che si definiscono buoni partner anche se difendono ostinatamente i loro interessi.

di Gilbert Achcar*
Raramente un avvenimento è stato così male interpretato, quanto al suo impatto sulle relazioni internazionali, come gli attentati di New York e di Washington. Si è spesso evocato l'attacco di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, proponendo un tipo di analogia che per i militaristi ha uno scopo evidente: giustificare la nuova versione dell'interventismo di Washington. Dopo la «guerra umanitaria» dell'amministrazione Clinton, è infatti sotto il segno della «guerra contro il terrorismo» che la nuova amministrazione Bush vuole contribuire a disciplinare il pianeta.
Nel frattempo il dipartimento di stato cerca di far passare il messaggio, ampiamente diffuso dai media, secondo cui gli Stati uniti avrebbero finalmente scelto quel «multilateralismo» che la nuova équipe della Casa bianca in un primo momento sembrava rifiutare (1). Ma a questo proposito il paragone tra gli avvenimenti in corso e la guerra del Golfo è molto istruttivo. All'epoca infatti, per riconciliare il paese e l'opinione pubblica con la guerra, George Bush padre si era premunito di mettere insieme una vasta coalizione internazionale (2), di giustificarsi con le risoluzioni dell'Onu e di ottenere la complicità, attiva o passiva, di Mosca e Pechino. Tutti fattori che avevano avuto un ruolo determinante nel via libera accordato a stretta maggioranza dal Congresso, nel gennaio 1991, all'utilizzo delle forze armate americane.
Dieci anni dopo George Bush figlio, lungi dal riprendere lo stesso tipo di «multilateralismo», si avvia sempre di più sulla strada nell'«unilateralismo», sotto la copertura della «coalizione». Come ha detto giustamente il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine, «nel loro nuovo impegno gli Stati uniti rimangono unilaterali» (3). Riprendiamo il paragone con la guerra del Golfo. Nel 1991 gli Stati uniti agivano nel quadro di un mandato del Consiglio di sicurezza, anche se di fatto la guerra del Golfo era condotta nel nome delle Nazioni unite ma non da esse - come aveva fatto notare il segretario generale dell'epoca, Javier Pérez de Cuellar. L'amministrazione di Bush padre utilizzò anche il pretesto dei limiti del mandato dell'Onu e dei desideri espressi dai suoi partner regionali per giustificare il fatto di non aver lanciato il suo esercito su Baghdad per rovesciare il regime di Saddam Hussein. Questa volta invece, per riprendere le parole del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, «è la missione a determinare la coalizione e non permetteremo alle coalizioni di determinare la missione» (4). Una missione che è stata chiaramente definita da Washington.
Di fatto gli Stati uniti hanno deliberatamente rifiutato l'offerta del Consiglio di sicurezza che, con la sua risoluzione 1.368 del 12 settembre, si era detto pronto a prendere tutte le misure necessarie per dare una risposta nel quadro della carta delle Nazioni unite agli attentati del giorno precedente. Washington ha declinato la proposta dei suoi più stretti alleati che, per la prima volta, si sono affrettati a invocare l'articolo V del Trattato dell'Atlantico del nord basato sulla solidarietà difensiva degli stati membri dell'Alleanza atlantica. Gli americani hanno preferito andare in guerra da soli con il fedele Anthony Blair (che le malelingue chiamano ormai «Us Vice President Blair») e hanno fatto ricorso ai contributi militari individuali dei loro alleati, secondo le loro esigenze, alle loro condizioni e sotto il loro esclusivo comando.
«O con noi o con i terroristi», ha dichiarato Bush in un discorso al Congresso, il 20 settembre scorso. E il 6 novembre, ricevendo il presidente francese Jacques Chirac, ha rivolto ai «coalizzati» il seguente monito: «I partner di una coalizione non si devono limitare a esprimere la propria simpatia; i partner di una coalizione devono svolgere il proprio compito [...]. Non mi riferisco a una nazione particolare. Bisogna accordare a tutti il beneficio del dubbio. Ma alla lunga sarà importante per le nazioni sapere che dovranno rendere conto della loro inattività».
Il messaggio era visibilmente rivolto ai paesi musulmani, decisamente meno numerosi e meno impegnati a fianco degli Stati uniti che nel 1991. Ma veniva ribadito in presenza di uno degli alleati occidentali di Washington. Mentre partecipava alla gara di solidarietà con gli Stati uniti dopo gli attentati dell'11 settembre e inviava soldati (in modo limitato) a dare manforte in Afghanistan, la Francia - ancora una volta - prodigava i suoi consigli non richiesti ai dirigenti americani, pregandoli di non reagire troppo brutalmente e unilateralmente, e invitandoli a passare per l'Onu. La stessa strategia era stata seguita, in un primo tempo, anche dai partner dell'Unione europea.
Ma il corso degli eventi ha deluso tutti coloro che speravano di vedere nascere una linea politica europea, unificata e autonoma da tenere nei confronti degli Stati uniti in campo politico-militare.
Seguendo Blair, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder, dopo aver inviato gli aerei radar Awacs per contribuire alla sorveglianza dello spazio aereo americano, ha deciso di mandare su richiesta di Washington un contingente della Bundeswehr, con il rischio di provocare una grave crisi nella sua stessa coalizione. Anche l'Italia di Silvio Berlusconi non è rimasta con le mani in mano e la Francia ha finito per mandare i suoi Mirage. Il fatto che questi stati - e altri membri dell'Unione europea - rispondano così individualmente alle richieste americane, testimonia in modo eloquente i limiti della «politica estera e di sicurezza comune».
Tuttavia, quando gli osservatori parlano di svolta nelle relazioni internazionali non si riferiscono ai rapporti di Washington con i suoi alleati tradizionali, ma con la Cina e la Russia; due potenze che la loro opposizione agli Stati uniti ha condotto in questi ultimi anni a un'accresciuta cooperazione militare e politica in nome della lotta all'«egemonia unipolare». D'altra parte i bombardamenti americani sull'Afghanistan non possono essere paragonati a quelli contro la Serbia, alleata di Mosca e di Pechino. Le due capitali si oppongono infatti, come Washington, al «terrorismo islamico»: nel 1996 avevano anche creato, con tre repubbliche dell'Asia centrale legate a Mosca (Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) il «gruppo di Shangai» per definire una lotta comune contro il militantismo islamico. Questo gruppo è diventato, lo scorso giugno, l'Organizzazione di cooperazione di Shangai, accogliendo l'Uzbekistan come sesto membro. La Russia e la Cina erano quindi ben disposte a sostenere una lotta internazionale contro l'islamismo radicale.
Ancora dopo l'11 settembre Pechino, pur proclamando il suo appoggio di principio alla lotta contro il «terrorismo», ha mantenuto un riserbo simile a quello espresso durante la guerra del Golfo, con la sua astensione al Consiglio di sicurezza. Attenti a non irritare Washington prima dell'adesione del loro paese all'Organizzazione mondiale del commercio (Omc), accettata a Doha il 10 novembre scorso, i dirigenti cinesi hanno comunque posto due condizioni al loro appoggio: hanno voluto che la reazione agli attentati si effettuasse nell'ambito delle Nazioni unite e hanno chiesto una reciprocità di sostegno rispetto alla loro lotta contro il «terrorismo islamico» nello Xinjiang e contro lo stesso «separatismo» di Taiwan.
Del resto Pechino ha più di un motivo per preoccuparsi della situazione attuale: la prospettiva di una presenza stabile di forze americane alle sue frontiere occidentali; il miglioramento dei rapporti di Washington con il Pakistan e con l'India, destinato a ridurre il margine di manovra della Cina che sosteneva Islamabad per meglio neutralizzare Nuova Delhi; il nuovo passo fatto dal Giappone nell'assumersi le proprie responsabilità politiche in materia di intervento militare all'estero; il peso accresciuto delle pressioni americane per far cessare le consegne cinesi di materiale militare agli stati accusati di sostenere il «terrorismo» (anche se gli americani rifiutano di ridurre il numero di armi vendute a Taiwan) e infine il riavvicinamento tra Mosca e Washington con l'assenso russo al progetto di scudo spaziale americano.
Così i rapporti tra Pechino e Washington, anziché distendersi, sono in un certo senso peggiorati, a causa del rifiuto americano di togliere le sanzioni imposte quest'anno alla Cina per aver fornito a Islamabad materiale che potrebbe servire alla fabbricazione di missili - forniture peraltro negate dai cinesi. Un rifiuto tanto più irritante per Pechino in quanto gli Stati uniti hanno tolto, dopo l'11 settembre, le sanzioni imposte al Pakistan e all'India in nome della lotta contro la proliferazione nucleare. Questa situazione ha influito sul vertice della Cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec) che si è svolto a Shangai in ottobre e che doveva essere l'occasione per sottolineare la solidarietà dei paesi della zona con gli Stati uniti in guerra. Nonostante la soddisfazione mostrata ufficialmente, il risultato di questo vertice è stato piuttosto deludente per Washington: la risoluzione finale non esprime sostegno diretto all'offensiva americana e sottolinea la necessità di inserire le azioni intraprese contro il terrorismo nel quadro dell'Onu e del diritto internazionale.
Questo vertice è stato anche l'occasione per un sottile gioco triangolare fra i presidenti Putin, Jiang Zemin e Bush: il 19 ottobre il presidente americano si riuniva con il suo omologo cinese senza riuscire a convincerlo della validità del progetto americano di scudo spaziale. Il giorno dopo, l'incontro Putin-Jiang si concludeva con una dichiarazione congiunta che invocava la rapida cessazione dei bombardamenti sull'Afghanistan e riaffermava l'attaccamento dei due paesi al trattato Abm per la limitazione dei dispositivi antimissile, che Bush considera decaduto.
L'indomani la riunione dei leader russo e americano terminava con una nota più confortante per quest'ultimo: il presidente russo si diceva convinto che i due paesi sarebbero giunti ad un accordo sulla questione della difesa antimissili, mentre Bush chiedeva di nuovo di porre fine «veramente» alle logiche da guerra fredda.
Questo gioco a tre, nel quale Putin ha un ruolo di primo piano che gli sembra assai gradito, non è cominciato con gli avvenimenti recenti.
Fin dal suo arrivo al potere, il presidente russo si muove sulla scena internazionale a sostegno dei due principali settori di esportazione del suo paese: gli idrocarburi e l'industria degli armamenti. Con grande disappunto di Washington, ha rafforzato i rapporti con i principali acquirenti di armamenti russi, in particolare la Cina, l'India e l'Iran (5). Ha anche corteggiato i due principali potenziali acquirenti di idrocarburi russi: ancora una volta la Cina, che dal 2005 potrà usufruire del petrolio siberiano grazie a un oleodotto lungo 2.400 chilometri, e la Germania (uno dei principali creditori della Russia) di cui Mosca è il primo fornitore di gas e uno dei più importanti di petrolio. Putin ha inoltre rafforzato i legami con Baghdad, in attesa che la fine dell'embargo imposto a questo paese liberi i promettenti contratti concessi all'industria petrolifera russa.
Il Vladimir Putin che nel luglio 2001 firmava a Mosca un trattato ventennale di cooperazione e di sostegno reciproco con la Cina, le cui clausole politiche sono implicitamente dirette contro Washington, è lo stesso che, da quando George W. Bush è entrato in carica, lo ha già incontrato in quattro occasioni, sempre con grandi manifestazioni di amicizia e di intesa. La ragione di questa reciproca sollecitudine non è difficile da individuare. Scottato dalla fredda accoglienza riservatagli dall'Europa all'inizio del suo mandato, il presidente americano ha capito che aveva bisogno di migliorare i rapporti con la Russia per poter far accettare ai suoi alleati, se non al suo stesso paese, quel progetto di scudo spaziale che rappresenta uno dei suoi obiettivi principali. Dal canto suo, il presidente russo ha capito che questo progetto, che non ha (almeno in un futuro prossimo) effetti neutralizzanti sulla dissuasione nucleare russa, poteva diventare una merce di scambio molto preziosa nei rapporti con gli Stati uniti.
Putin cerca spazio Negli ultimi mesi, la lista delle richieste formulata da Mosca - come misure di compensazione per un assenso russo al desiderio dell'amministrazione Bush di abrogare o modificare radicalmente il trattato sui missili antibalistici (Abm) del 1972, in modo da poter effettuare senza alcuna limitazione nuovi test di missili antimissile - non ha smesso di allungarsi. L'elenco comprende: una nuova riduzione simmetrica e reciproca delle armi strategiche dei due paesi, che permetterebbe alla Russia di diminuire le spese di mantenimento di una forza nucleare attualmente molto superiore alle esigenze di dissuasione e di aumentare quindi i fondi consacarati alle forze convenzionali; la riduzione del debito estero dovuto da Mosca ai creditori governativi del Club di Parigi; il sostegno americano alla richiesta russa di adesione all'Omc nel 2004 e l'abolizione degli ostacoli presenti su questa strada, come l'emendamento Jackson-Vanik del 1974 (6).
Il presidente Putin ha colto subito l'occasione degli attentati dell'11 settembre per migliorare la propria posizione negoziale tanto con la Germania che con gli europei (7). La nuova comprensione manifestata in Occidente nei confronti della guerra russa in Cecenia è tale da attenuare le opposizioni parlamentari alle richieste da Mosca, come ha mostrato l'accoglienza calorosa riservata a Putin dal Bundestag tedesco. Influenzato dall'improvviso miglioramento dei suoi rapporti con la Nato, Putin ha addirittura ipotizzato l'eventualità di una partecipazione russa alle decisioni dell'Alleanza o di una trasformazione di quest'ultima in un'organizzazione politica che comprenda anche membri senza statuto militare (8). Inoltre, la Russia è stata ricompensata con l'annuncio di un prossimo investimento di 4 miliardi di dollari da parte del gigante petrolifero americano Exxon nel campo di Sakhalin 1, all'estremità orientale del paese.
La posizione del presidente Putin non comporta grandi sacrifici per la Russia, almeno nel breve periodo - al contrario di quella adottata nel 1990 da Mikhail Gorbaciov che, dopo aver abbandonato un impero, sacrificò un cliente privilegiato di Mosca come l'Iraq sull'altare dei rapporti con l'Occidente. L'Afghanistan dei taliban era da molto tempo nel mirino di Mosca, che aveva minacciato di bombardare il paese in rappresaglia al sostegno dato da Kabul alla corrente integralista della ribellione cecena. Inoltre, dopo la rottura di Washington con i suoi ex amici taliban, era già stata messa in piedi una collaborazione tra americani e russi contro Kabul: il gruppo di lavoro sull'Afghanistan istituito dai presidenti Clinton e Putin si riunisce periodicamente dal giugno 2000.
In concreto, al di là delle informazioni trasmesse dai servizi segreti russi a Washington sulla rete al Qaeda, acerrima nemica dei due paesi, Mosca non si è impegnata più di tanto: scartando ogni possibile aiuto militare diretto alla guerra, la Russia si è limitata ad aprire il suo spazio aereo agli americani - ufficialmente per il passaggio dei soli voli umanitari. Ha poi promesso di partecipare alle operazioni di recupero dei piloti americani, sapendo bene che la probabilità che i taliban potessero abbattere degli aerei era minima. Inoltre ha aumentato l'aiuto militare all'Alleanza del Nord, che appoggia già da molto tempo e che vuole al potere a Kabul - in opposizione al Pakistan, alleato regionale privilegiato da Washington. Come ulteriore pegno della propria buona volontà, Mosca ha deciso, senza grandi rimpianti, di smantellare due basi di ascolto elettroniche, una in Vietnam e un'altra a Cuba che copriva direttamente il territorio degli Stati uniti (9).
L'aiuto apparentemente più spettacolare accordato da Putin a Washington è stato il suo via libera al dispiegamento di forze americane nelle repubbliche ex sovietiche confinanti con l'Afghanistan. Ma a questo proposito la concessione non è così importante come si potrebbe credere a prima vista. Gli Stati uniti avevano infatti già stabilito una cooperazione militare con il regime autoritario del presidente uzbeko Islam Karimov molto prima dell'11 settembre - in realtà da più di cinque anni (10). Il presidente russo non sarebbe stato in grado di vietare a Washington l'accesso all'Uzbekistan, dove peraltro erano già presenti militari americani. Per quanto riguarda invece il Tagikistan, l'atteggiamento di Mosca rimane ambiguo: durante una recente visita a Dushanbe, dopo essere passato per Mosca, Rumsfeld non ha ottenuto risposte chiare riguardo all'utilizzo degli aeroporti di questo paese strettamente legato alla Russia.
La trappola afghana Le reali concessioni russe sono quindi molto meno rilevanti di quanto possa sembrare. Per Putin il rischio principale, che suscita le maggiori resistenze e critiche sia tra i suoi collaboratori che nell'esercito, è vedere gli Stati uniti insediarsi militarmente in modo stabile in Afghanistan e in Asia centrale, rafforzando considerevolmente la loro posizione nel «Grande gioco» petrolifero e strategico in questa parte dell'ex Urss (11). I generali russi sono però convinti che l'Afghanistan costituisca un tale ginepraio che Washington non riuscirà mai a controllarlo, e alcuni si rallegrano addirittura alla prospettiva di vedere gli Stati uniti e i loro alleati cadere nella stessa trappola che loro avevano teso in passato all'Unione sovietica.
Il presidente russo si è comunque premurato di annunciare ai suoi generali, alla vigilia del viaggio a Washington, un nuovo aumento delle paghe e dei fondi destinati alle forze armate.
Da parte americana non si è però così ingenui come potrebbero far credere i rapporti di Bush con Putin. Al vertice di metà ottobre il presidente americano non ha ceduto su alcun punto essenziale: ha annunciato unilateralmente la riduzione dell'arsenale nucleare americano a un livello ritenuto sufficiente dal Pentagono rifiutando però di legarsi le mani con un nuovo trattato Start, come quello preso in considerazione da William Clinton e da Boris Eltsin e reclamato da Putin; ha riaffermato la sua determinazione ad abrogare unilateralmente, se necessario, il trattato Abm in modo da proseguire sulla strada della difesa antimissilistica.
Come al solito, i due guru rivali del «realismo» americano nel settore delle relazioni internazionali, Zbigniew Brzezinski e Henry Kissinger, hanno espresso il pensiero di fondo di Washington: entrambi hanno sottolineato l'importanza della determinazione del loro paese nell'agire in modo unilaterale e hanno designato l'Iraq come il prossimo obiettivo dell'azione americana (12). In altre parole, gli eventi susseguitisi nei tre mesi dopo gli attentati, confermano che l'11 settembre è soprattutto servito a rafforzare la nuova politica egemonica e «unilaterale» seguita dagli Stati uniti dopo la fine della guerra fredda.
 
 

note:

* Professore all'università Paris-VIII (Saint-Denis), autore di La Nouvelle guerre froide, Puf, Parigi, 1999.

(1) Si troverà una buona illustrazione di questo sforzo e una definizione del nuovo «multilateralismo» - illuminante nonostante il suo carattere diplomatico - nella relazione di Richard Haas, direttore della pianificazione politica presso il dipartimento di stato americano, diffusa dai suoi servizi con il titolo «After September 11: American Foreign Policy and the Multilateral Agenda», Office of International Information Programs, Us Department of State, Washington, 14 novembre 2001.

(2) È quello che dimentica - un esempio fra i tanti - Edward Luttwak che, nel suo articolo «New Fears, New Alliances» (New York Times, 2 ottobre 2001), parla di un'«alleanza delle grandi potenze per l'ordine internazionale» senza precedenti dai tempi di quella che reagì all'ondata rivoluzionaria della meta del XIX secolo! L'autore crede nell'avvento di una «rivoluzione nella politica estera americana».

(3) Le Monde, 16 novembre 2001.

(4) «Face the Nation», Cbs, 23 settembre 2001.

(5) Il 2 ottobre 2001, in piena luna di miele russo-occidentale, la Russia firmava un accordo-quadro per la consegna di 7 miliardi di dollari di armi all'Iran!
(6) Destinato originariamente a costringere Mosca a lasciare emigrare gli ebrei russi, questo emendamento impedisce di fatto la normalizzazione delle relazioni commerciali russo-americane, subordinandole all'approvazione annuale del Congresso.

(7) Si legga Nina Bachkatov, «Perché Mosca ha colto la palla al balzo» Le Monde diplomatique/Il manifesto, novembre 2001.

(8) In mancanza di una o dell'altra condizione, Mosca dichiara di non poter accettare l'adesione degli stati baltici alla Nato, che figura nell'ordine del giorno del vertice dell'Alleanza a Praga nel novembre 2002.

(9) Il generale Anatoly Kvashnin, capo di stato maggiore russo, ha dichiarato che con il solo affitto pagato per la base cubana di Lourdes, 200 milioni di dollari all'anno, la Russia potrebbe fabbricare e lanciare venti satelliti militari e dotarsi di molti radar moderni.
A sua volta il Vietnam chiedeva 300 milioni di dollari all'anno per la base di Cam Ranh, utilizzata in origine per spiare la marina cinese.

(10) Si legga C.J. Chivers, «Long Before War, Green Berets Built Military Ties to Uzbekistan», New York Times, 25 ottobre 2001.

(11) Si legga Vicken Cheterian, «Dal Golfo alla Cina, conflitti ad alto rischio», Le Monde diplomatique/Il manifesto, novembre 2001.

(12) Zbigniew Brzezinski, «A New Age of Solidarity? Don't Count on It», The Washington Post, 2 novembre 2001; Henry Kissinger, «Where Do We Go From Here?», The Washington Post, 6 novembre 2001.
(Traduzione di A. D. R.)