Il NUOVO 13/12/2001
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"Bin Laden, rivoluzionario come Trotzky"

Per Avishai Margalit, noto filosofo della politica israeliano, quella di Osama è una rivoluzione. E, come l'avversario di Stalin, lo sceicco sogna di esportarla.
 di Nina Fuerstenberg*
 
NEW YORK - “Il terrore viene dalla rivoluzione. E quella di Bin Laden è una rivoluzione esattamente come era rivoluzione quella di Trotzky. Entrambi volevano esportarla in tutto il mondo: rivoluzione internazionalista quella di al-Quaeda, locale quella di Hamas. E dalla rivoluzione, islamica o comunista, scaturisce il terrore, quel terrore di cui è fatta anche la storia di Israele”. A parlare così è Avishai Margalit, intellettuale israeliano, filosofo della politica noto per La società decente, un testo che propone come fondamento normativo di una società bene ordinata il ripudio della umiliazione degli esseri umani, a cominciare dalla forma più bestiale di umiliazione, quella che viene dalla violenza.

Ma Margalit che attualmente insegna a New York è anche un osservatore e uno storico della politica del suo paese, cui ha dedicato un libro che in questi giorni viene ristampato in Italia, Volti di Israele (Carocci editore), una galleria di ritratti delle figure che hanno contato nella vicenda tormentata della nazione. Ci troverete, per esempio, non solo una analisi, pacata quanto inquietante, di Sharon (“provocare sempre una escalation”, il suo motto. “Egli ritiene che da un disordine risultante da un aumento di violenza lui uscirà sempre vincitore”), ma anche la storia di come l’“ideologia rivoluzionaria” sia parte costitutiva della “storia monumentale” di Israele. Quando sente parlare di “rivoluzione” Margalit fa scattare un riflesso assai simile a quello di Isaiah Berlin (il “principe degli esuli” cui è dedicato l’ultimo dei ritratti del libro) e di Karl Popper: meglio l’ingegneria delle riforme “a spizzico”, che anche quando sono sbagliate fanno comunque meno danni di qualunque rivoluzione “giusta”.

Un’altra crisi tra Israele e palestinesi che potrebbe essere catastrofica. Come andrà a finire questa volta?

“Ci sono due possibilità: la prima è di fare del conflitto tra Israele e i Palestinesi un conflitto nazionale, la seconda è di farne una guerra di religione assoluta. Finchè riusciamo a contenerlo sul piano nazionale, per quanto duro e amaro, c’è qualche speranza di soluzione, nell’altro caso non ce n’è alcuna. Finora il conflitto era “misto” ora stiamo slittando verso la Jihad. Preferisco Arafat ai suoi avversari interni perchè rimane, anche se con difficoltà, sul primo terreno. E siamo di nuovo a un punto di svolta, come nel ’96: allora Arafat riuscì a impedire la catastrofe, questa volta non sono sicuro che ce la farà e non sono nemmeno sicuro che Israele glielo lascierà fare, ammesso che lui possa e voglia.”

Il terrore di queste ore, le stragi, ma la storia di Israele è piena di momenti di terrore.

Il terrore fu usato da tutti, un terrore arabo prima che lo Stato di Israele fosse fondato, un terrore israeliano contro gli inglesi e gli arabi. La dimensione era piuttosto piccola, non immensa come l’attacco dell’11 settembre. Ma il terrore è stato usato diffusamente nel corso degli anni. Non penso che questo sia un gran segreto. Molti di coloro che alla fine sono diventati grandi e rispettati leaders iniziarono come terroristi. Shamir era un terrorista e così Arafat. La questione è quale sia la parte terroristica della natura del conflitto, se si parla di “conflitto terroristico” o “conflitto di guerra”. Non è solo terrore, naturalmente, ma il terrore, dobbiamo riconoscerlo, è stato spesso un  mezzo per guadagnare terreno.

Perchè lei parla di rivoluzione nel caso di Bin Laden, e di Hamas? Questo non è il più puro terrorismo che si possa immaginare?

“Parlo di rivoluzione islamica, che si manifesta in molti punti focali, tra i quali al-Quaeda è il più importante. Non ritengo che sia in corso una rivoluzione islamica, ma piuttosto che vi siano le condizioni in tutto il mondo islamico per una rivoluzione. Quella attuale è una situazione simile a quella della fine dell’Ottocento in Russia; si parlava di terrore ma la vera posta era la rivoluzione. Poi in ogni rivoluzione ci sono i trotzkisti e gli stalinisti. Khomeini era uno stalinista, voleva sperimentare un regime islamico inizialmente in un solo Paese, in Iran, e poi esportarlo. Bin Laden è un trotzkista, ritiene che si debba esportare l’islamismo all’intero mondo musulmano e principalmente nell’area del Golfo.”

Ma come è possibile sovrapporre la rivoluzione islamica a quella russa, due realtà così diverse per contenuti e cultura?

“La rivoluzione islamica è molto più reazionaria mentre quella Russa era una rivoluzione futurista, ma entrambe sono dei movimenti rivoluzionari. Queste condizioni rivoluzionarie si possono chiamare “propaganda con l’azione”. Si tratta di attaccare l’Occidente e l’America, i loro simboli, e poi neutralizzare l’appoggio americano ai regimi arabi, dopo di che conquisti quei paesi e cerchi di dimostrare che l’America è una tigre di carta, aprendo la strada ai regimi islamici in tutta quella parte del mondo.

Un progetto internazionalista basato sul rifiuto dei nazionalismi arabi.

Questo è Bin Laden. Altre organizzazioni, inclusa quella di Hamas, per quanto atroce sia la sua capacità di seminare morte, sono più locali, hanno obiettivi circoscritti, non internazionali. Anche se adesso, si capisce, Hamas ha voluto raccogliere la sfida di Bin Laden.

Va bene, ma il paragone con Trotzky?

Non sto discutendo sul contenuto di una rivoluzione bensì su una strategia che prima attua una rivoluzione in un Paese e poi la esporta o tenta di esportarla in tutti gli altri.

La rivoluzione ha obiettivi politici, ma il problema della nostra interpretazione di quanto accade riguarda i confini tra terrorismo e legittima battaglia politica. l fatto è che chi simpatizza chiama i terroristi “combattenti”: così fanno molti cattolici irlandesi per l’Ira, o molti baschi per l’Eta, molti palestinesi per Hamas, mentre dall’altra parte in Israele c’è chi considera terroristi tutti i palestinesi, compreso Arafat. Ora, dobbiamo arrenderci a questo genere di relativismo? Non abbiamo criteri coerenti e solidi per liquidare universalmente il terrorismo?

Naturalmente i mezzi di al-Quaeda, come quelli di Hamas, sono terroristici: utilizzare civili per attaccare civili, uccidere civili è una parte essenziale della loro politica. Questo è il terrorismo, non importa chi lo faccia. Infliggere paura e terrore a sostegno della tua politica e assalire persone inermi è terrorismo. Al Quaeda è un gruppo terroristico, ma anche molti dei gruppi rivoluzionari della fine del XIX secolo in Russia erano terroristici, usavano l’assassinio come metodo.

Ci sono degli evidenti confini tra guerra e terrorismo, ma in che cosa ci aiuta a capire le cose il fatto di definire Stalin e Trotzky terroristi come Bin Laden?

Ci fu un “terrore rosso” in Russia durante la Rivoluzione. Un regno di terrore. In tre mesi il regime ammazzò più civili di quanto non fece la Russia zarista in 110 anni. Il problema è la cultura del terrore ed il suo uso generalizzato. Affermare che quello non era terrorismo è ridicolo. Io non uso il termine “rivoluzionario” come un titolo onorario, esso definisce una ribellione tesa a cambiare la natura del regime, ma poi i rivoluzionari si rivelano sempre peggiori del regime che hanno abbattuto: infatti Bin Laden riesce a far apparire accettabili anche i corrotti regimi arabi; Khomeini riuscì a fare apparire un buon regime anche quello dello Shah. Anche il nazismo fu un movimento rivoluzionario, dette luogo a una terribile rivoluzione, a una rivoluzione nazionale che utilizzò diffusamente il terrore. Nelle rivoluzioni sia i fini che i mezzi usati per la loro realizzazione sono orribili.

Ma la rivoluzione di ottobre fu il rovesciamento di regime dentro un paese, la Jihad è storicamente la guerra per l’espansione dell’Islam su altri paesi.
Le rivoluzioni tendono a imporsi agli altri popoli: i nazisti non abbatterono soltanto la democrazia, occuparono militarmente altri paesi. E l’esportatore Bin Laden rappresenta la rivoluzione islamica tanto quanto l’eportatore Trocki rappresenta quella russa.

Non tutto l’internazionalismo è sempre terroristico: le brigate internazionali di Spagna e quelle del mullah Omar non sono la stessa cosa.
Capisco la differenza. Vede, anch’io simpatizzo per le brigate antifranchiste degli anni Trenta, ma strutturalmente ci sono delle analogie con le brigate dei combattenti islamici di Bin Laden. E poi anche allora c’era il terrorismo nelle file degli anarchici.

Perchè insiste su questa identificazione “rivoluzione uguale terrore”? Dove ci porta? A combattere meglio il terrorismo?

Se si descrive questo terrorismo senza tener conto dei propositi politici e del contesto politico si finisce per descrivere una guerra contro la Mafia, contro le bande criminali che cercano di ottenere qualcosa. Alcune volte è Mafia internazionale. Così combatti i trafficanti di droga della Columbia. Nello stesso modo potresti portare Bin Laden davanti a una corte e fai giustizia, sostenendo che questa non è una guerra, non è un attacco, né un atto rivoluzionario, ma un attacco criminale e terroristico sporadico. Questa invece è una guerra. Non nasce da situazioni singole, caso per caso, come la Mafia. Definirlo “terrore” significa perdere qualcosa, soprattutto la sua dimensione e gli scopi politici. E’anche terrore, ma il terrore è il mezzo attraverso cui raggiungere lo scopo, fare una rivoluzione.

Non abbiamo per caso bisogno di una nuova definizione giuridica del terrorismo, come ha proposto il giudice spagnolo Garzòn?

Garzòn ha assolutamente ragione. Questo è ciò di cui noi abbiamo veramente bisogno, credo. E’ tempo per gli analisti politici, legali e morali di far emergere una definizione assai migliore. Definirlo terrore non aiuterà molto, è un concetto troppo ampio, troppo compresso, troppo generico e troppo astratto, anche se gli esiti del terrore sono al contrario molto concreti e dolorosi.

E’ pensabile una soluzione di questa crisi basata sull’intervento della giustizia?

Il punto è che la gente parla di pace giusta, “pace e giustizia” come se fossero “caffè e latte”, o “fish and chips”, come se le due cose andassero sempre insieme. Credo, invece, che ci sia tensione tra pace e giustizia, una tensione persino più dolorosa di quella tra “eguaglianza e libertà”. Per definizione pace significa “compromesso” e, si intende, “compromesso su  giusti interessi”. Se invece tu vuoi una pace giusta, che è di solito una pace utopica, allora non ci sarà pace. La pace vera la ottieni se retrocedi sul piano della giustizia o almeno su alcuni importanti elementi intorno alla giustizia. Chiedere una pace giusta è chiedere l’obbiettivo finale, ma la pace è l’idea del “second best”. Giustizia è la cosa migliore, si capisce, ma qualche volta c’è bisogno di pace e non di giustizia.

(13 DICEMBRE 2001, ORE 18:00)