Operazione di intelligence vicino a Sarajevo dei militari della Sfor e della polizia locale: arrestati quattro trafficanti croati
I carabinieri bloccano l’atomica dei terroristi
Sequestrati
70 chili di materiale nucleare in due contenitori
con
la sigla dell’ex esercito jugoslavo
SARAJEVO - Settanta chili di materiale
radioattivo. Settanta chili o giù di lì. Tanto pesano i due
contenitori, sigillati e perciò privi di emissioni, sequestrati
ieri a Sarajevo dai carabinieri della Sfor e dalla polizia bosniaca. Un
gruppo di trafficanti croati di Bosnia aveva messo in piedi un commercio
ad altissimo rischio di materiale nucleare, ma ieri sono stati fermati.
Nel corso dell'operazione sono stati arrestati quattro croati e sono stati
bloccati i due contenitori che portano la sigla dell'ex esercito jugoslavo,
«Jna».
Per Sasa Radic, uno dei massimi esperti
indipendenti serbi in questioni militari, in Bosnia esistevano industrie
militari capaci di produrre materiale radioattivo per il «Jna»,
ma si trattava di elementi non proprio adatti alla costruzione di bombe.
Fatto sta che il gruppo individuato dai nostri carabinieri - il sequestro
è avvenuto presso Kiselijiak, 30 chilometri a nord di Sarajevo,
in un'area abitata in maggioranza da croati di Bosnia - intendeva vendere
ai terroristi internazionale il materiale per costruire una bomba nucleare
tattica.
E questo non è l'unico allarme
in fatto di traffico internazionale di componenti radioattive. Almeno dieci
chili di materiale nucleare, uranio 235 e 238, sarebbero stati trafugati
nel gennaio scorso - ha raccontato un tecnico italiano - dai depositi congolesi
del deposto dittatore Mobutu e negoziati la scorsa primavera tra il Belgio
e l'Italia, con destinazione finale Bagdad. Un carico pericolosissimo,
visto che l'uranio 235 è arricchito e pronto a un eventuale uso
per una dirty bomb. L'Aiea, agenzia delle Nazioni Unite per l'energia atomica,
qualche giorno fa è tornata a ripetere che la minaccia di un ricorso
a ordigni nucleari per fini terroristici «non è più
soltanto una semplice possibilità». Di quel carico arrivato
dal Congo si era scoperto anche che il compratore avrebbe potuto scegliere
se acquistarlo in barre, un dettaglio curioso che richiama la vicenda delle
sette barre di uranio arricchito di fabbricazione americana, finite nelle
mani della mafia nel 1998, intercettate a Roma da uomini della Guardia
di finanza e quindi scomparse nel nulla del gran calderone dei traffici
di armi internazionali.
Delle barre all'uranio ne è saltata
fuori una sola, mentre gli undici «venditori» - mafiosi, 'ndranghetisti
ed ex banditi della banda della Magliana - l'11 ottobre scorso sono condannati
dal tribunale di Catania a pene comprese tra i 2 anni e 1 mese e i 4 anni
e 6 mesi di reclusione. Ma dove siano finiti tutti quei chili di uanio
che minacciano l'Europa resta un mistero.
Elisabetta Martorelli