La Repubblica DOMENICA,
09 DICEMBRE 2001
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Pagina 14 - Esteri
Al
bazar del traffico nucleare spunta il pericolo "cobalto"
Al Qaeda, nuovo
allarme degli "ispettori atomici"
DOSSIER
La Iaea ha chiesto
altri fondi per i controlli
Pochi grammi, trafugati
da un ospedale, potrebbero avvelenare l'acquedotto di una intera città
E' più facile
da trovare rispetto all'uranio, e più semplice da usare per questo
Bin Laden potrebbe tentare di impadronirsene
DAI NOSTRI INVIATI
DANIELE MASTROGIACOMO
MASSIMO RAZZI
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VIENNA — Il telefono, al ventesimo piano
del palazzo di vetro dell'Agenzia, squillò verso le 3 di un pomeriggio
insolitamente caldo per Vienna. "Ci hanno segnalato del materiale radioattivo",
disse seccamente il capo stazione Cia di Kinshasa, Repubblica democratica
del Congo. "Lo abbiamo visto. Ma non siamo in grado di valutare. Dovreste
fare un salto qui, per analizzarlo". Era il 27 maggio scorso. Tre giorni
dopo una squadra di ispettori dell'Iaea, l'Agenzia internazionale per il
controllo della produzione nucleare nel mondo, era già in volo per
il cuore dell'Africa. Una missione segreta e delicata. Gli 007 dell'Agenzia
dell'Onu lavorarono per 36 ore di fila. Girando in lungo e in largo, ascoltando
i buoni propositi dei governanti di turno, respingendo i tentativi di corruzione
e le proposte di vendita del materiale segnalato. "Alla fine", conferma
oggi una fonte statunitense, "si convinsero che non c'era nulla di pericoloso.
Era uranio, sì, ma quasi tutto 238. I tester di radioattività
avevano registrato indici bassissimi".
Il materiale però esisteva: alcune
barre di combustibile, con una piccola percentuale di uranio 235, boccette
con dell'uranio 238 e un grosso bottiglione con del liquido verdastro,
una sorta di "acqua pesante", che gli addetti alla sicurezza del posto
conservavano come una reliquia. Chi aveva rubato
quel materiale non sapeva neanche cosa fosse. Sapeva però che poteva
avere un valore sul mercato clandestino dei prodotti radioattivi.
Da dove veniva tutta quella roba? L'avevano fornita gli Stati Uniti alla
centrale nucleare di Kinshasa, dove, dal 1971, è installato un piccolo
reattore sperimentale "Triga". La centrale è stata dismessa ma i
suoi "pezzi" hanno continuato a circolare sul mercato nero del nucleare.
Soprattutto dopo la caduta e la fuga di Mobutu nel 1996. All'appello, tra
l'altro, mancavano otto barre di uranio 235. Sparite nel nulla dal 1973
e poi riapparse (un paio) in Italia (in mano alla mafia) nel 1998. Una
fu recuperata dalla Guardia di Finanza; delle altre non si sa più
nulla. Anche questo caso è finito nel database dell'Agenzia e costituisce
uno dei 175 episodi di traffico illecito di materiale nucleare dal 1994
a al 2000. Ma tonnellate di altro materiale nucleare,
in parte innocuo, in parte molto pericoloso, continuano a girare il mondo.
In mano a trafficanti senza scrupoli.
L'immenso archivio dell'Agenzia è
stato riesaminato a fondo dopo l'attentato dell'11 settembre alle Torri
Gemelle. Anche perché l'Fbi e la Cia insistevano con Vienna per
sapere se e come Osama bin Laden o gli uomini di Al Qaeda potevano procurarsi
un ordigno nucleare. "E' molto difficile", risposero gli esperti dell'Iaea
al termine del lungo esame dei casi sospetti segnalati. "Anche se nessuno",
aggiungono ora a Vienna, "può garantirlo al 100 per cento".
Perché? Costruire una bomba atomica
non è un gioco da ragazzi. "Servono almeno 25 chili di uranio arricchito
al 90 per cento", sospirano agli ultimi piani del Palazzo di vetro a Vienna,
"oppure 8 chili di plutonio 239". Ma in decine di anni, confermano le schede
del database, nessuno è arrivato a tanto. Esiste però un'alternativa:
mettere insieme grossi quantitativi di materiale contenente uranio 235
in piccole percentuali da estrarre con procedimenti fisici lunghi, complessi
e costosi, in modo da arrivare ai 25 chili quasi puri. Già, ma come?
Le centrali nucleari sono controllate da 500 telecamere fisse e sigillate,
sottrarre materiale è una vera impresa.
Ma allora quanto è vicino alla
bomba atomica lo sceicco del terrore? Alla Iaea sono certi che anche lui
è lontano dall'atomica vera. Compresa quella "dirty", "sporca",
e altrettanto pericolosa? Per fabbricarla basta la metà del materiale
richiesto per l'atomica. Si accumulano piccoli quantitativi di uranio e
di plutonio, fino ad arrivare ad un certo numero di chili, si circondano
di plastico o tnt e si fanno esplodere. Scatta la reazione a catena della
bomba nucleare, ma non si completa. "Non ci sarebbe", ammettono all'Agenzia,
"un effetto pari all'atomica, ma la contaminazione potrebbe essere abbastanza
vasta. Con le conseguenze che possiamo facilmente immaginare".
Questo è l'aspetto che più
preoccupa gli ispettori dell'Iaea. I controlli sono severissimi e lo sono
diventati ancora di più dopo gli attentati dell'11 settembre. L'Agenzia
ha chiesto ai 132 Stati che hanno aderito al programma, un contributo di
30 milioni di dollari. La cifra serve a incrementare la tecnologia usata
e aumentare il numero del personale addetto alla verifiche. Oggi le ispezioni
avvengono in tutto il mondo. Tranne nei Paesi che non hanno aderito al
trattato e che posseggono la bomba nucleare: Usa, Russia, Cina, Francia,
Gran Bretagna, India, Pakistan e Israele.
Ma il traffico di ogni tipo di "sorgente
nucleare", dal pericolosissimo plutonio, al cobalto, alle diverse forme
di uranio (238 o 235) è fiorente. Molti trafficanti neppure sanno
bene quello che hanno per le mani. Gli stessi compratori, spesso, vengono
"bidonati" da scaltri intermediari. Non sempre. Capita qualche volta che
sulla giostra del terrore e del ricatto salga qualcuno che ha davvero in
mano materiale ad alta radioattività. La Iaea, nel suo database,
li punteggia di rosso. Casi che fanno paura: in Messico, una partita di
cobalto; nella Repubblica ceca 17 chili di uranio naturale; alla frontiera
tra Iran e Armenia, un camion di lamiere radioattive; in Belgio cesio 137
e uranio 235. E poi, il più clamoroso, quello che ha messo davvero
in apprensione gli 007 di Vienna: un sequestro, pochi mesi fa, alla frontiera
tra Grecia e Bulgaria. A bordo di un camion gli agenti hanno scoperto 3
grammi di plutonio 239. Nulla, rispetto agli 8 chili necessari per costruire
una bomba. Ma pur sempre plutonio. E col plutonio 239 si possono progettare
attentati terribili, senza arrivare alla bomba. Per avvelenare l'acqua
di un acquedotto, ne bastano poche centinaia di grammi. Molti, in confronto
ai 3 trovati in Grecia. Ma alla Iaea sanno benissimo che i sequestri rappresentano
appena il 10/20 per cento dei traffici che vanno a buon fine.
Basta infatti
una certa quantità di cobalto 60 per mettere a rischio la sicurezza
collettiva. E, visto che il cobalto si trova comunemente in ospedale, alla
Iaea pensano che i terroristi potrebbero puntare su questo piuttosto che
battere le strade faticose dell'uranio.
Il cobalto 60 è conservato in scatole
metalliche schermate e a chiusura ermetica inserite in molti impianti radiologici.
Trafugarlo non è un problema. Gli incidenti del passato insegnano.
Decine e decine di contaminati in Messico, nel 1983, e a Goiania, in Brasile,
nel 1987. E ancora in Georgia (1997), Perù (1999), Estonia (1994),
Algeria (1978), Cina (1996), Turchia (1998), Egitto e Thailandia (2000).
Le cronache ci descrissero cosa accadde a Goiania. Nella cittadina brasiliana
era stato smantellato un ospedale. Per un disguido, tra le macerie, dimenticarono
una "scatola" piena di cobalto 60. Alcuni rottamai, cercando ferro e altri
materiali, scoprirono il contenitore. Lo aprirono e restarono abbagliati
dalle bellissime pietruzze azzurre. Convinti di aver trovato un tesoro,
le portarono via. Sei di loro morirono in pochi giorni; altri subirono
amputazioni tra terribili spasmi. Un intero quartiere fu raso al suolo.
Ancora oggi quell'area è offlimits: sarà decontaminata solo
nel 2050.
I terroristi, fanno notare alla Iaea,
non cercano solo la bomba atomica: vera o "dirty". Per loro conta l'effetto
psicologico. Al Qaeda può far girare la voce che possiede l'ordigno.
Bin Laden lo ribadisce nelle sue interviste. Gli accertamenti dei tecnici
di Vienna dicono che probabilmente bluffa. Ma resta il dubbio: quanto basta
per temere il peggio.