ROMA — Almeno dieci chilogrammi di materiale
radioattivo, uranio 235 e 238, sono stati trafugati dai depositi congolesi
del deposto dittatore Mobutu e quindi negoziati la scorsa primavera tra
il Belgio e l'Italia con destinazione finale Bagdad. Verosimilmente consegnati
a Tripoli, stando all'ultima traccia che se ne ha, nelle mani di emissari
di quello "Stato canaglia" sospettato di preparare armi di distruzione
di massa e oggi nella lista dei possibili prossimi obiettivi della guerra
al terrorismo. Dell'intera vicenda Repubblica, è in grado di documentare
i singoli passaggi. Ha incontrato quel che doveva essere il mediatore italiano
dell'affare e ne ha verificato il racconto. Ha acquisito le foto e la lista
dettagliata del materiale radioattivo oggetto del traffico. E' in grado
di dare un nome a chi trafugò l'uranio organizzandone il traffico
e di indicare un indirizzo dove questa storia è cominciata il 24
gennaio scorso: il 40 di Avenue de la Toison d'or, Bruxelles.
[* * *]
Quel giorno, F.P., tecnico italiano di
49 anni, una vita spesa tra cantieri edili nel cuore dell'Africa, bussa
alla suite 603 dell'hotel "Sofitel Toison d'or". Lo aspetta un congolese
sulla sessantina, che F.P. non ha mai visto, ma con un nome che suggerisce
un qualche timore: Beyeye Djema.
Sfuggito al crollo del regime di Mobutu,
Beyeye Djema, che del dittatore è stato un dignitario, che ha controllato
il lucroso ufficio delle dogane, guadagnandosi l'iscrizione nell'elenco
dei 248 esclusi dalla vita pubblica del Congo per violazione dei diritti
civili, è riparato in Europa portando con sé una ricca dote
di contatti e una parte almeno del tesoro del dittatore deposto. Djema
— ecco la ragione dell'appuntamento — vuole concludere in gran fretta un
affare. Cerca un contatto italiano e Omama Dionge, che di Mobutu è
stato ambasciatore in Libia e che vive in Italia con lo status di rifugiato
politico, gli ha suggerito di incontrare F.P.. Lo conosce di persona, sa
che può fidarsi.
Beyeye non si perde in convenevoli. «Ho
per le mani un buon affare», spiega a F.P. Apre il frigobar della
sua suite, ne estrae un'Evian da mezzo litro e sorridendo svela la ragione
dell'incontro: «Un contenitore da un chilo di uranio è grosso
più o meno così».
F.P. è sorpreso. E' convinto che
quando si tratta di affari con i congolesi di Mobutu è di diamanti
che si parla. Ma non è questo il caso. «Ma quali diamanti
— lo investe Beyeye — i soldi veri si fanno con l'uranio. Un contenitore
così si vende anche a 150 milioni di dollari (300 miliardi di lire)».
Parla per esperienza Beyeye. Sa quel che dice: «Kabila padre è
stato in Libia e in cambio di un solo contenitore di uranio ha avuto elicotteri,
carri armati e molte armi...». Lui vuole solo soldi. Molti soldi.
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L'uranio è merce ricercata. Ne
puoi fare combustibile per l'atomica dei poveri, la "dirty bomb". E puoi
persino immaginare un'atomica tradizionale se riesci ad acquistarne chili
e non grammi. L'Aiea, agenzia delle Nazioni Unite per l'energia atomica,
non più tardi di due giorni fa è tornata a ripetere che la
minaccia di un ricorso ad ordigni nucleari per fini terroristici «non
è più soltanto una semplice possibilità». E
la lista della merce da piazzare che il 24 gennaio Beyeye mostra ad F.P.
perché si incarichi di collocarla ne è una sinistra conferma.
In un documento, di cui Repubblica è
in possesso (vedi grafico), l'ex dignitario di Mobutu offre ai compratori
dieci pipe brocket di uranio 238. Sono piccoli contenitori di piombo, di
cui si offre in garanzia una serie di foto (che Repubblica riproduce in
questa pagina). Pesano un chilogrammo ciascuno, sono prodotte negli Stati
Uniti e rendono sicuro il trasporto della sostanza. Beyeye offre anche
dell'altro. Con un fax mette a disposizione diversi quantitativi di uranio
235, il più pericoloso, perché arricchito. Pronto ad un eventuale
uso per una dirty bomb. Il compratore potrà scegliere anche se acquistarlo
in barre.
Un dettaglio curioso, perché richiama
la vicenda delle sette barre di uranio arricchito, finite nelle mani della
mafia nel 1998, intercettate e quindi scomparse. Anche quelle provenienti
dal Congo. Anche quelle arrivate dagli Stati Uniti agli inizi degli anni
'70 per sostenere il programma "Atoms for Peace", atomi per la pace, in
un Paese allora considerato amico quanto politicamente stabile.
Beyeye spiega solo in parte come si sia
procurato quella merce che ora va offrendo in una suite di un albergo di
Bruxelles. Ad F.P. dice: «Quando è caduto Mobutu e Kabila
padre ha preso Kinshasa con la sua banda di ladroni, sono riuscito a mettere
al sicuro questa roba, anche con l'aiuto degli americani, con cui ho buoni
rapporti». Beyeye ha fretta. Quell'uranio deve essere piazzato presto
e bene, raccomanda ad F.P. e al suo amico Omama Dionge. A Roma, Dionge
si mette al lavoro.
[* * *]
Si erano già fatti avanti gli italiani.
Un gruppo del nord (lo racconta F.P. nell'intervista qui a fianco), aveva
chiesto e ottenuto un primo abboccamento in Sardegna. Non sono interessati
all'intera partita, ma a una soltanto delle pipe brocket. E questo a Beyeye
non piace. I compratori più interessati alla "merce" sono a Tripoli.
Un africano nero — così chiamano il contatto libico — ha trovato
chi è disposto a comprare in blocco la merce. I dieci chilogrammi
di uranio 238, così come le barre di uranio arricchito. Per farne
che, non è difficile immaginarlo.
A questo punto, quando i giochi sembrano
avviarsi a soluzione, F.P. non è più della partita. Ha paura,
l'affare dice «non mi piaceva per niente». E' convinto, tra
l'altro, che i suoi interlocutori gli stanno tacendo le circostanze essenziali
della "vendita", i dettagli della consegna dell'uranio e il prezzo finale
dell'affare. Si convince di essere stato semplicemente usato. Comincia
a sfilarsi, ma non senza aver prima intuito chi ha chiuso l'accordo: gli
iracheni. Loro si nasconderebbero dietro l'arabo nero, il cui nome è
un segreto gelosamente custodito da Omama Dionge (l'altro mediatore del
traffico) e che F.P. immagina essere un sudanese. Loro, o in alternativa
– è sempre F.P. a raccontarlo – i coreani del nord.
Quando Omama parte per Tripoli, F.P. ormai
è fuori. E l'uranio è arrivato a destinazione. Dice F.P.:
«Quando ho immaginato che uso ne sarebbe stato fatto ho pensato che
non avrei resistito: mi sarei ucciso. Ora che quei dieci chili di uranio
potrebbero essere finiti nelle mani di chi lo sa chi, sono pronto a raccontare
tutto quello che so e ad aiutare chi volesse indagare».