La Repubblica MERCOLEDÌ, 28 NOVEMBRE 2001
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Pagina 14 - Esteri
 
Quei dieci chili di uranio che minacciano l'Europa
Dall'Italia alla Libia i contenitori del terrore
 
DOSSIER
 
La "merce" è scomparsa, come le sette barre di uranio in mano alla mafia
La Libia è interessata all'acquisto, già in passato fece l'affare in cambio di armi
Un tecnico italiano svela il mistero: "Dal Congo in vendita la bomba per Saddam"
Un dignitario dell'ex dittatore Mobutu offre bottigliette nucleari a 300 miliardi di lire
L'affare nucleare in un hotel belga
 
CARLO BONINI
GIUSEPPE D'AVANZO
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giuseppe d'avanzo
MASSIMO RAZZI

ROMA — Almeno dieci chilogrammi di materiale radioattivo, uranio 235 e 238, sono stati trafugati dai depositi congolesi del deposto dittatore Mobutu e quindi negoziati la scorsa primavera tra il Belgio e l'Italia con destinazione finale Bagdad. Verosimilmente consegnati a Tripoli, stando all'ultima traccia che se ne ha, nelle mani di emissari di quello "Stato canaglia" sospettato di preparare armi di distruzione di massa e oggi nella lista dei possibili prossimi obiettivi della guerra al terrorismo. Dell'intera vicenda Repubblica, è in grado di documentare i singoli passaggi. Ha incontrato quel che doveva essere il mediatore italiano dell'affare e ne ha verificato il racconto. Ha acquisito le foto e la lista dettagliata del materiale radioattivo oggetto del traffico. E' in grado di dare un nome a chi trafugò l'uranio organizzandone il traffico e di indicare un indirizzo dove questa storia è cominciata il 24 gennaio scorso: il 40 di Avenue de la Toison d'or, Bruxelles.
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Quel giorno, F.P., tecnico italiano di 49 anni, una vita spesa tra cantieri edili nel cuore dell'Africa, bussa alla suite 603 dell'hotel "Sofitel Toison d'or". Lo aspetta un congolese sulla sessantina, che F.P. non ha mai visto, ma con un nome che suggerisce un qualche timore: Beyeye Djema.
Sfuggito al crollo del regime di Mobutu, Beyeye Djema, che del dittatore è stato un dignitario, che ha controllato il lucroso ufficio delle dogane, guadagnandosi l'iscrizione nell'elenco dei 248 esclusi dalla vita pubblica del Congo per violazione dei diritti civili, è riparato in Europa portando con sé una ricca dote di contatti e una parte almeno del tesoro del dittatore deposto. Djema — ecco la ragione dell'appuntamento — vuole concludere in gran fretta un affare. Cerca un contatto italiano e Omama Dionge, che di Mobutu è stato ambasciatore in Libia e che vive in Italia con lo status di rifugiato politico, gli ha suggerito di incontrare F.P.. Lo conosce di persona, sa che può fidarsi.
Beyeye non si perde in convenevoli. «Ho per le mani un buon affare», spiega a F.P. Apre il frigobar della sua suite, ne estrae un'Evian da mezzo litro e sorridendo svela la ragione dell'incontro: «Un contenitore da un chilo di uranio è grosso più o meno così».
F.P. è sorpreso. E' convinto che quando si tratta di affari con i congolesi di Mobutu è di diamanti che si parla. Ma non è questo il caso. «Ma quali diamanti — lo investe Beyeye — i soldi veri si fanno con l'uranio. Un contenitore così si vende anche a 150 milioni di dollari (300 miliardi di lire)». Parla per esperienza Beyeye. Sa quel che dice: «Kabila padre è stato in Libia e in cambio di un solo contenitore di uranio ha avuto elicotteri, carri armati e molte armi...». Lui vuole solo soldi. Molti soldi.
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L'uranio è merce ricercata. Ne puoi fare combustibile per l'atomica dei poveri, la "dirty bomb". E puoi persino immaginare un'atomica tradizionale se riesci ad acquistarne chili e non grammi. L'Aiea, agenzia delle Nazioni Unite per l'energia atomica, non più tardi di due giorni fa è tornata a ripetere che la minaccia di un ricorso ad ordigni nucleari per fini terroristici «non è più soltanto una semplice possibilità». E la lista della merce da piazzare che il 24 gennaio Beyeye mostra ad F.P. perché si incarichi di collocarla ne è una sinistra conferma.
In un documento, di cui Repubblica è in possesso (vedi grafico), l'ex dignitario di Mobutu offre ai compratori dieci pipe brocket di uranio 238. Sono piccoli contenitori di piombo, di cui si offre in garanzia una serie di foto (che Repubblica riproduce in questa pagina). Pesano un chilogrammo ciascuno, sono prodotte negli Stati Uniti e rendono sicuro il trasporto della sostanza. Beyeye offre anche dell'altro. Con un fax mette a disposizione diversi quantitativi di uranio 235, il più pericoloso, perché arricchito. Pronto ad un eventuale uso per una dirty bomb. Il compratore potrà scegliere anche se acquistarlo in barre.
Un dettaglio curioso, perché richiama la vicenda delle sette barre di uranio arricchito, finite nelle mani della mafia nel 1998, intercettate e quindi scomparse. Anche quelle provenienti dal Congo. Anche quelle arrivate dagli Stati Uniti agli inizi degli anni '70 per sostenere il programma "Atoms for Peace", atomi per la pace, in un Paese allora considerato amico quanto politicamente stabile.
Beyeye spiega solo in parte come si sia procurato quella merce che ora va offrendo in una suite di un albergo di Bruxelles. Ad F.P. dice: «Quando è caduto Mobutu e Kabila padre ha preso Kinshasa con la sua banda di ladroni, sono riuscito a mettere al sicuro questa roba, anche con l'aiuto degli americani, con cui ho buoni rapporti». Beyeye ha fretta. Quell'uranio deve essere piazzato presto e bene, raccomanda ad F.P. e al suo amico Omama Dionge. A Roma, Dionge si mette al lavoro.
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Si erano già fatti avanti gli italiani. Un gruppo del nord (lo racconta F.P. nell'intervista qui a fianco), aveva chiesto e ottenuto un primo abboccamento in Sardegna. Non sono interessati all'intera partita, ma a una soltanto delle pipe brocket. E questo a Beyeye non piace. I compratori più interessati alla "merce" sono a Tripoli. Un africano nero — così chiamano il contatto libico — ha trovato chi è disposto a comprare in blocco la merce. I dieci chilogrammi di uranio 238, così come le barre di uranio arricchito. Per farne che, non è difficile immaginarlo.
A questo punto, quando i giochi sembrano avviarsi a soluzione, F.P. non è più della partita. Ha paura, l'affare dice «non mi piaceva per niente». E' convinto, tra l'altro, che i suoi interlocutori gli stanno tacendo le circostanze essenziali della "vendita", i dettagli della consegna dell'uranio e il prezzo finale dell'affare. Si convince di essere stato semplicemente usato. Comincia a sfilarsi, ma non senza aver prima intuito chi ha chiuso l'accordo: gli iracheni. Loro si nasconderebbero dietro l'arabo nero, il cui nome è un segreto gelosamente custodito da Omama Dionge (l'altro mediatore del traffico) e che F.P. immagina essere un sudanese. Loro, o in alternativa – è sempre F.P. a raccontarlo – i coreani del nord.
Quando Omama parte per Tripoli, F.P. ormai è fuori. E l'uranio è arrivato a destinazione. Dice F.P.: «Quando ho immaginato che uso ne sarebbe stato fatto ho pensato che non avrei resistito: mi sarei ucciso. Ora che quei dieci chili di uranio potrebbero essere finiti nelle mani di chi lo sa chi, sono pronto a raccontare tutto quello che so e ad aiutare chi volesse indagare».