LE SCIENZE DICEMBRE 2001
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L’India, il Pakistan e la Bomba
M. V. Ramana, A. H. Nayyar
 
Il testo integrale di questo articolo si trova sul numero di dicembre di "Le Scienze"

Non appena gli Stati Uniti hanno mobilitato le forze armate in risposta agli attentati terroristici dell’11 settembre, l’attenzione del mondo si è concentrata sul Pakistan, area cruciale per le operazioni militari in Afghanistan. E quando il presidente Pervez Musharraf ha garantito il suo sostegno alla forza multinazionale il pensiero di molti deve essere corso nella stessa direzione: che ne sarà degli armamenti nucleari pakistani? Potrebbero cadere nelle mani degli estremisti?
La rinnovata preoccupazione per la presenza di armi atomiche nel Subcontinente indiano arriva a breve distanza dagli eventi del maggio 1998: i cinque test nucleari condotti dall’India nel poligono di Pokharan, seguiti tre settimane più tardi dai sei test condotti dal Pakistan nella regione sud-occidentale del Chaghay. Un anno dopo i test scoppiò una violenta schermaglia in merito all’occupazione di un picco montuoso presso la città di Kargil. Il conflitto, durato un paio di mesi, costò la vita a 1300 persone secondo fonti indiane e 1750 secondo fonti pakistane. Per la prima volta dal 1971 l’India schierò la sua aviazione per lanciare gli attacchi. In risposta, i caccia pakistani furono tenuti a terra, per paura che potessero essere abbattuti. A Islamabad, capitale del Pakistan, suonarono le sirene che avvisavano dei raid aerei. Alti ufficiali di entrambi gli eserciti scatenarono almeno una dozzina di allarmi nucleari. Alla fine, India e Pakistan giunsero a più miti consigli. Ma la fine dello scontro di Kargil non segnava la fine del confronto nucleare nel Subcontinente indiano. E ora che l’instabilità politica del Pakistan assume i contorni di una prospettiva realistica, il pericolo di un confronto con armi non convenzionali non è mai stato così vicino.
Le risposte di India e Pakistan agli eventi dell’11 settembre e all’attacco degli Stati Uniti all’Afghanistan riflettono la competizione strategica che ha condizionato molta della loro storia. L’India ha subito offerto basi e supporto logistico all’esercito americano. Tentando di legare i loro problemi in Kashmir alla preoccupazione internazionale per il terrorismo, i governanti indiani hanno anche minacciato di lanciare un attacco alle linee di difesa pakistane, accusandole di essere basi di addestramento per i terroristi kashmiri. Il Pakistan, comprendendo sia il vantaggio geopolitico in cui si trovava sia i pericoli di instabilità interna, ha deciso di offrire il suo sostegno alla guerra contro i taleban. Le macchinazioni diplomatiche, la guerra in Afghanistan, e la violenza in Kashmir hanno senz’altro peggiorato le prospettive di pace nel Subcontinente. E anche la soppressione delle sanzioni statunitensi, imposte negli anni novanta, ha liberato preziose risorse da investire in armamenti.
I limiti della politica occidentale di non proliferazione sono ormai dolorosamente ovvi. I programmi nucleari pakistani ne hanno rivelato l’inadeguatezza. Un’efficace strategia di non proliferazione dovrebbe comportare anche azioni diplomatiche sul fronte della domanda, volte a convincere i paesi che la bomba non è un requisito per la sicurezza. La misura più importante è un progresso verso il disarmo nucleare globale. Qualcuno obietta che il disarmo non abbia alcuna relazione con la non proliferazione. Ma una simile premessa è la più colossale illusione dell’era nucleare. E potrebbe essere la più pericolosa.
 

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