LA STAMPA - 28/11/2001
http://www.lastampa.it/_EDICOLANew/esteri/295812.htm
Secondo
il Cremlino sarebbe «immotivato e pericoloso»
un
coinvolgimento di Baghdad nell´attuale campagna americana contro
il terrorismo
IL CAIRO Saddam Hussein lancia di nuovo
il guanto di sfida all'America mentre i caccia americani tornano a colpire
le postazioni missilistiche nel Sud dell´Iraq, nella cosiddetta «zona
di interdizione al volo» sotto il 29° parallelo. Il pronunciamento
di Baghdad rappresenta una risposta diretta a Bush, il quale non fa più
misteri sulla volontà di dare presto il via alla fase due della
lotta al terrorismo internazionale, colpendo probabilmente Iraq, Somalia
e Sudan. L'invito di Bush a Baghdad, di aprire subito le porte agli ispettori
Onu per nuovi controlli dei suoi arsenali, ha ricevuto un secco «no»
dal Raíss. Una fonte irachena ha risposto con tono sprezzante: «Chiunque
pensasse che l'Iraq possa accettare un arrogante monito o un diktat sbaglierebbe
di grosso. Nessuno può imporre la sua volontà all'Iraq che
è capace di difendersi». Sono piccole schermaglie, militari
e diplomatiche, destinate però a far precipitare tutto nei prossimi
giorni. Il grimadello di Bush sarà l'attuazione della soluzione
Onu che impone il ritorno delle ispettori Onu (già espulsi nel '98)
per verificare la presenza di armi di sterminio di massa a Baghdad. Questo
gli fornirà il pretesto per allargare il conflitto all'Iraq. Saddam
aveva già risposto incurante: la risoluzione 1284 l'abbiamo attuata,
adesso va annullata la 986, nota come «petrolio in cambio di cibo».
Dunque il vero braccio di ferro fra l´Iraq e l'amministrazione Bush
iniziera' esattamente il 30 novembre, quando il Consiglio di Sicurezza
esaminerà il prolungamento di quella soluzione per altri sei mesi.
Baghdad da tempo fa la voce grossa per revocare la risoluzione che restringe
le importazioni irachene, soggette a un rigido controllo da parte delle
Nazioni Unite. Queste, dopo avere incamerato i soldi della vendita del
petrolio iracheno, provvedono a selezionare le merci richieste da Baghdad,
scartando quelle che potrebbero consentirle di ricostruire il suo apparato
bellico. Il pericolo che l'Iraq sia destinato a diventare il prossimo bersaglio,
una volta conclusa la compagna militare in Afghanistan, diventa sempre
più concreto. Anche perché il successo contro i taleban ha
rafforzzato la tesi dei falchi nell'amministrazione Bush, come il sottosegretario
alla Difesa Paul Wolfowitz, il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza
Rice, l'assistente del segretario di Stato per il controllo degli armamenti
John Bolton, secondo i quali l'Iraq deve essere colpito per togliere di
mezzo Saddam. La Russia, però, giudica «immotivata e pericolosa»
ogni ipotesi di coinvolgimento dell'Iraq in azioni militari nell'ambito
dell'attuale campagna antiterrorismo. Lo ha affermato ieri il viceministro
degli esteri Aleksandr Saltanov: «Da giorni alcuni mass media internazionali
non fanno che scrivere del possibile uso della forza contro l'Iraq e questo
ci preoccupa», ha detto. Anche, ha aggiunto, perchè una tale
ipotesi metterebbe a repentaglio «l'affiatamento della coalizione
internazionale antiterrorismo» e in particolare l'adesione dei Paesi
arabi moderati. «Questo scenario - ha aggiunto - è già
stato discusso con i nostri partner occidentali, ai quali la nostra posizione
è ben chiara». I benefici per l'America di un´operazione
contro l´Iraq, elencati dall'editorialista del quotidiano arabo «al-Shark
al-Awssata», Amir Tahri, sarebbero numerosi. In primo luogo, eliminando
il dittatore iracheno gli Usa e la Gran Bretagna non avranno più
bisogno di mantenere truppe in modo stabile nella penisola arabica per
proteggerla da un'invasione irachena. Il che toglierebbe un argomento negli
mani degli islamici contro le monarchie del Golfo. Secondo, addomesticare
l'Iraq indurrebbe Israele ad assumere un linea più morbida nel negoziato
mediorientale. Infine la scomparsa del regime baathista a Baghdad indurrebbe
i mullah in Iran a essere più flessibili con l'Occidente. «I
rischi - assicura Tahri - sarebbero poi assai scarsi, visto il precedente
dell'Afghanistan, con il basso profilo assunto dalle masse arabe e islamiche
durante la caccia agli studenti del Corano». Rompere l'alleanza anti-terrorismo
(una rottura con l'Egitto e l'Arabia Saudita) potrebbe essere l'unica nota
negativa dell'estensione del conflitto all'Iraq. Del resto il Raíss
egiziano Mubarak si è mostrato indispensabile in questa fase sullo
scacchiere arabo. Sta svolgendo bene il suo compito di alleato degli Stati
Uniti nella lotta al terrorismo. Lunedì è riuscito, a Tripoli,
a convincere persino il riottoso Muammar Gheddafi che «la caccia
ai terroristi in tutto il mondo sia un atto doveroso». Coloro che
invece temono di finire nel mirino degli Usa entro il prossimo gennaio
sono il Sudan, lo Yemen e la Somalia. Il primo è accusato di produrre
armi di distruzione di massa e di ospitare ancora basi di Al Qaeda. Ma
l'uomo forte di Khartum, generale Hassan el-Bashir, dice di temere nulla
e giura di collaborare con gli americani fornendo informazioni preziose
sul terrorismo, e per di più di aver consentito la presenza permanente
di ufficiali della Cia in Sudan. Il fardello dello Yemen è ancor
più pesante per via della mancata collaborazione con gli inquirenti
americani nell'inchiesta sull'attentato alla fregata «Cole»
(missione suicida, con 17 marinai americani uccisi, effettuato lo scorso
ottobre nel Golfo di Aden da Al Qaeda). In Somalia, regno dell'anarchia,
esistono veri covi degli uomini di Bin laden con campi di addestramento,
basi militari e una solida rete finanziaria, che - si dice al Pentagono
- saranno prossimi bersagli dei missili Cruise. Così il mondo arabo
dovrà forse fare i conti con l'America di Bush una volta finita
la festa del Ramadan.
Ibrahim Refat