(Del 28/11/2001 Sezione: Esteri Pag. 7)

LA STAMPA - 28/11/2001
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Secondo il Cremlino sarebbe «immotivato e pericoloso»
un coinvolgimento di Baghdad nell´attuale campagna americana contro il terrorismo
 

IL CAIRO Saddam Hussein lancia di nuovo il guanto di sfida all'America mentre i caccia americani tornano a colpire le postazioni missilistiche nel Sud dell´Iraq, nella cosiddetta «zona di interdizione al volo» sotto il 29° parallelo. Il pronunciamento di Baghdad rappresenta una risposta diretta a Bush, il quale non fa più misteri sulla volontà di dare presto il via alla fase due della lotta al terrorismo internazionale, colpendo probabilmente Iraq, Somalia e Sudan. L'invito di Bush a Baghdad, di aprire subito le porte agli ispettori Onu per nuovi controlli dei suoi arsenali, ha ricevuto un secco «no» dal Raíss. Una fonte irachena ha risposto con tono sprezzante: «Chiunque pensasse che l'Iraq possa accettare un arrogante monito o un diktat sbaglierebbe di grosso. Nessuno può imporre la sua volontà all'Iraq che è capace di difendersi». Sono piccole schermaglie, militari e diplomatiche, destinate però a far precipitare tutto nei prossimi giorni. Il grimadello di Bush sarà l'attuazione della soluzione Onu che impone il ritorno delle ispettori Onu (già espulsi nel '98) per verificare la presenza di armi di sterminio di massa a Baghdad. Questo gli fornirà il pretesto per allargare il conflitto all'Iraq. Saddam aveva già risposto incurante: la risoluzione 1284 l'abbiamo attuata, adesso va annullata la 986, nota come «petrolio in cambio di cibo». Dunque il vero braccio di ferro fra l´Iraq e l'amministrazione Bush iniziera' esattamente il 30 novembre, quando il Consiglio di Sicurezza esaminerà il prolungamento di quella soluzione per altri sei mesi. Baghdad da tempo fa la voce grossa per revocare la risoluzione che restringe le importazioni irachene, soggette a un rigido controllo da parte delle Nazioni Unite. Queste, dopo avere incamerato i soldi della vendita del petrolio iracheno, provvedono a selezionare le merci richieste da Baghdad, scartando quelle che potrebbero consentirle di ricostruire il suo apparato bellico. Il pericolo che l'Iraq sia destinato a diventare il prossimo bersaglio, una volta conclusa la compagna militare in Afghanistan, diventa sempre più concreto. Anche perché il successo contro i taleban ha rafforzzato la tesi dei falchi nell'amministrazione Bush, come il sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz, il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice, l'assistente del segretario di Stato per il controllo degli armamenti John Bolton, secondo i quali l'Iraq deve essere colpito per togliere di mezzo Saddam. La Russia, però, giudica «immotivata e pericolosa» ogni ipotesi di coinvolgimento dell'Iraq in azioni militari nell'ambito dell'attuale campagna antiterrorismo. Lo ha affermato ieri il viceministro degli esteri Aleksandr Saltanov: «Da giorni alcuni mass media internazionali non fanno che scrivere del possibile uso della forza contro l'Iraq e questo ci preoccupa», ha detto. Anche, ha aggiunto, perchè una tale ipotesi metterebbe a repentaglio «l'affiatamento della coalizione internazionale antiterrorismo» e in particolare l'adesione dei Paesi arabi moderati. «Questo scenario - ha aggiunto - è già stato discusso con i nostri partner occidentali, ai quali la nostra posizione è ben chiara». I benefici per l'America di un´operazione contro l´Iraq, elencati dall'editorialista del quotidiano arabo «al-Shark al-Awssata», Amir Tahri, sarebbero numerosi. In primo luogo, eliminando il dittatore iracheno gli Usa e la Gran Bretagna non avranno più bisogno di mantenere truppe in modo stabile nella penisola arabica per proteggerla da un'invasione irachena. Il che toglierebbe un argomento negli mani degli islamici contro le monarchie del Golfo. Secondo, addomesticare l'Iraq indurrebbe Israele ad assumere un linea più morbida nel negoziato mediorientale. Infine la scomparsa del regime baathista a Baghdad indurrebbe i mullah in Iran a essere più flessibili con l'Occidente. «I rischi - assicura Tahri - sarebbero poi assai scarsi, visto il precedente dell'Afghanistan, con il basso profilo assunto dalle masse arabe e islamiche durante la caccia agli studenti del Corano». Rompere l'alleanza anti-terrorismo (una rottura con l'Egitto e l'Arabia Saudita) potrebbe essere l'unica nota negativa dell'estensione del conflitto all'Iraq. Del resto il Raíss egiziano Mubarak si è mostrato indispensabile in questa fase sullo scacchiere arabo. Sta svolgendo bene il suo compito di alleato degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo. Lunedì è riuscito, a Tripoli, a convincere persino il riottoso Muammar Gheddafi che «la caccia ai terroristi in tutto il mondo sia un atto doveroso». Coloro che invece temono di finire nel mirino degli Usa entro il prossimo gennaio sono il Sudan, lo Yemen e la Somalia. Il primo è accusato di produrre armi di distruzione di massa e di ospitare ancora basi di Al Qaeda. Ma l'uomo forte di Khartum, generale Hassan el-Bashir, dice di temere nulla e giura di collaborare con gli americani fornendo informazioni preziose sul terrorismo, e per di più di aver consentito la presenza permanente di ufficiali della Cia in Sudan. Il fardello dello Yemen è ancor più pesante per via della mancata collaborazione con gli inquirenti americani nell'inchiesta sull'attentato alla fregata «Cole» (missione suicida, con 17 marinai americani uccisi, effettuato lo scorso ottobre nel Golfo di Aden da Al Qaeda). In Somalia, regno dell'anarchia, esistono veri covi degli uomini di Bin laden con campi di addestramento, basi militari e una solida rete finanziaria, che - si dice al Pentagono - saranno prossimi bersagli dei missili Cruise. Così il mondo arabo dovrà forse fare i conti con l'America di Bush una volta finita la festa del Ramadan.
Ibrahim Refat