Mentre il Papa chiede il digiuno in contemporanea con la fine del Ramadan
Caccia al turbante
E l'imam pakistano
se ne va da New York
Negli Usa cambia
il clima per i mussulmani e c'è chi torna a casa
di Antonio Gregolin
Tre mesi dopo gli attentati, New York riprende
la sua faccia multietnica. L'Occidente rispetti l'Oriente anche con un
giorno senza pane. Alle tavole imbandite si sostituiscano le buone intenzioni,
come ha chiesto il Papa nel suo appello per il giorno del digiuno. Un Occidente
che attacca, ma capace anche di solidarizzare con l'altro mondo; quello
troppo spesso affamato, dove le tavole non possono essere imbandite e le
intenzioni sono lasciate alle armi. I poveri ci guardano anche quando per
un giorno decidiamo di non mangiare per sentirci più vicini a loro.
Questioni etiche ma soprattutto politiche tra il nord grasso e il sud povero.
«Non c'è pace senza giustizia», ha ammonito Giovanni
Paolo II in questi ultimi giorni, pensando alle questioni che ci portano
dentro il turbinio della storia degli ultimi mesi. La lista è lunga:
Twin Towers, Afghanistan, Iraq, Palestina, Israele, Somalia, Bosnia, Cecenia.
Per ognuno di questi paesi varrebbe bene un giorno di digiuno. Forse più
che un tavolo senza pane, per questi sarebbe meglio offrire un tavolo di
mediazione su cui sedersi. Per la prima volta
nella storia, gli occidentale sono chiamati alla comunione con gli islamici
per rispettare la fine del Ramadan.
Non sottovalutiamolo questo gesto, così
come non lo sottovalutino coloro che al richiamo del muezzin sospenderanno
per l'ultima volta ogni attività fisica fino al tramonto. Sarà
una novità anche per quei mussulmani che vivono nei paesi occidentali,
America compresa. A tre mesi dal disastro del TWC, a New York sono tornati
a mostrarsi gli uomini col turbante. I colletti bianchi di Wall Street
sono ritornati a camminare fianco a fianco con pakistani, afghani e indiani
con il turbante. Shuja Chughtai è uno di loro.
Da più di trent'anni ha lasciato
il Pakistan per a New York. Prima dell'undici settembre non si era mai
tolto il suo tradizionale costume mussulmano. Poi, anche la sua storia
è stata travolta dalla polvere delle torri che crollavano a pochi
isolati dalla moschea in cui insegna come Imam. «Li
capisco, quello che è capitato a questa città è tremendo»,
è la prima risposta di Shuja, che incontriamo a pochi passi dal
centralissimo City Hall e dalla spianata del WTC. «Dopo la catastrofe
- afferma l'Imam - indiani, afghani, pakistani hanno vissuto momenti difficili.
Mai come oggi l'essere mussulmani in America è una cosa complessa.
Subito dopo gli attentati, molti della nostra comunità temevano
di uscire per strada, di incontrare la gente e anche gli stessi amici.
Molti altri si sono subito tolti i vestiti e i segni tradizionali della
nostra appartenenza religiosa per non dare nell'occhio. Per la prima volta
ho indossato anch'io la giacca e i vestiti occidentali per paura di discriminazioni.
La barba però non l'ho tagliata, e per questo ci vedono come Talebani,
benché le differenze siano sostanziali».
Cos'è cambiato del vostro modo
di vivere? «Sono trentacinque anni che vivo in questa città
e non mi era mai capitato di sentirmi così osservato come in questi
ultimi tre mesi. I nostri fratelli ce lo dicono: ci raccontano delle loro
paure psicologiche, dei timori nella vita di tutti i giorni, delle abitudini
che hanno dovuto cambiare. Anche a me è capitato di sentirmi gridare
per strada di essere un terrorista. Sappiamo che in America ci sono state
delle aggressioni contro alcune moschee, come qualche settimana fa a Huston.
Tutto ciò dimostra che niente può essere più come
prima. Oggi i nostri luoghi di culto sono sorvegliati dalla polizia, segno
che qualcosa può ancora accadere. Le carceri di NY sono stracolme
di persone arrestate a scopo cautelativo. La stragrande maggioranza di
questi sono fratelli mussulmani che incontro ogni giorno in cella».
Siamo a pochi passi dal fatidico "Ground Zero". Come vede oggi la ripercussione
che la vicenda ha avuto nel popolo pakistano e afghano? «Il concetto
democratico di questo Paese è tale che, se noi pakistani fossimo
stati in India e ci avessero accusato di essere dei terroristi, ci avrebbero
già sterminati tutti. E' pur vero che la mia terra, il Pakistan,
avrebbe fatto bene a starsene fuori dal conflitto che è in corso.
Non trovo giusto che per colpa di 16 terroristi, stiano pagando migliaia
di persone innocenti».
«Non è
comprensibile - prosegue l'Imam - come la potente FBI americana non sapesse
di quanto qui sarebbe accaduto. Basterebbe un loro deciso intervento per
debellare il terrorismo e far finire la guerra. Ma questo nessuno lo vuole
e la guerra deve continuare... L'America, farebbe bene a rivedere molte
sue colpe, primo fra tutti il conflitto palestinese. Non sono l'unico a
dire che in fondo sono gli israeliani a controllare gli americani e non
viceversa. Nel mondo ci sono troppe ingiustizie che alimentano il terrorismo.
Coloro che fanno del male devono essere puniti. Però, nella stessa
maniera debbono essere tutelati gli indifesi e gli innocenti. Odio chiama
odio, violenza chiamerà altra violenza».
Il suo futuro allora come sarà?
«In America, intende? Beh, probabilmente il tempo sanerà le
ferite e questo paese ama troppo la libertà per non essere in grado
di superare questo momento. Io ormai sono vecchio, ma credo che me ne tornerò
presto nel mio paese. Per me il futuro potrebbe essere incerto... Spero
solo che il popolo americano - conclude Shuja Chughtai - capisca che l'Islam
è pace, saggezza, rispetto. Ma per capire questo, servirà
ancora molto tempo per tutti».