La Tribuna di Treviso
 http://www.tribunatreviso.kataweb.it/tribunatreviso/arch_14/treviso/idee/vt201.htm

Mentre il Papa chiede il digiuno in contemporanea con la fine del Ramadan

Caccia al turbante

E l'imam pakistano se ne va da New York
Negli Usa cambia il clima per i mussulmani e c'è chi torna a casa

di Antonio Gregolin

Tre mesi dopo gli attentati, New York riprende la sua faccia multietnica. L'Occidente rispetti l'Oriente anche con un giorno senza pane. Alle tavole imbandite si sostituiscano le buone intenzioni, come ha chiesto il Papa nel suo appello per il giorno del digiuno. Un Occidente che attacca, ma capace anche di solidarizzare con l'altro mondo; quello troppo spesso affamato, dove le tavole non possono essere imbandite e le intenzioni sono lasciate alle armi. I poveri ci guardano anche quando per un giorno decidiamo di non mangiare per sentirci più vicini a loro. Questioni etiche ma soprattutto politiche tra il nord grasso e il sud povero. «Non c'è pace senza giustizia», ha ammonito Giovanni Paolo II in questi ultimi giorni, pensando alle questioni che ci portano dentro il turbinio della storia degli ultimi mesi. La lista è lunga: Twin Towers, Afghanistan, Iraq, Palestina, Israele, Somalia, Bosnia, Cecenia. Per ognuno di questi paesi varrebbe bene un giorno di digiuno. Forse più che un tavolo senza pane, per questi sarebbe meglio offrire un tavolo di mediazione su cui sedersi. Per la prima volta nella storia, gli occidentale sono chiamati alla comunione con gli islamici per rispettare la fine del Ramadan.
Non sottovalutiamolo questo gesto, così come non lo sottovalutino coloro che al richiamo del muezzin sospenderanno per l'ultima volta ogni attività fisica fino al tramonto. Sarà una novità anche per quei mussulmani che vivono nei paesi occidentali, America compresa. A tre mesi dal disastro del TWC, a New York sono tornati a mostrarsi gli uomini col turbante. I colletti bianchi di Wall Street sono ritornati a camminare fianco a fianco con pakistani, afghani e indiani con il turbante. Shuja Chughtai è uno di loro.

Da più di trent'anni ha lasciato il Pakistan per a New York. Prima dell'undici settembre non si era mai tolto il suo tradizionale costume mussulmano. Poi, anche la sua storia è stata travolta dalla polvere delle torri che crollavano a pochi isolati dalla moschea in cui insegna come Imam. «Li capisco, quello che è capitato a questa città è tremendo», è la prima risposta di Shuja, che incontriamo a pochi passi dal centralissimo City Hall e dalla spianata del WTC. «Dopo la catastrofe - afferma l'Imam - indiani, afghani, pakistani hanno vissuto momenti difficili. Mai come oggi l'essere mussulmani in America è una cosa complessa. Subito dopo gli attentati, molti della nostra comunità temevano di uscire per strada, di incontrare la gente e anche gli stessi amici. Molti altri si sono subito tolti i vestiti e i segni tradizionali della nostra appartenenza religiosa per non dare nell'occhio. Per la prima volta ho indossato anch'io la giacca e i vestiti occidentali per paura di discriminazioni. La barba però non l'ho tagliata, e per questo ci vedono come Talebani, benché le differenze siano sostanziali».
Cos'è cambiato del vostro modo di vivere? «Sono trentacinque anni che vivo in questa città e non mi era mai capitato di sentirmi così osservato come in questi ultimi tre mesi. I nostri fratelli ce lo dicono: ci raccontano delle loro paure psicologiche, dei timori nella vita di tutti i giorni, delle abitudini che hanno dovuto cambiare. Anche a me è capitato di sentirmi gridare per strada di essere un terrorista. Sappiamo che in America ci sono state delle aggressioni contro alcune moschee, come qualche settimana fa a Huston. Tutto ciò dimostra che niente può essere più come prima. Oggi i nostri luoghi di culto sono sorvegliati dalla polizia, segno che qualcosa può ancora accadere. Le carceri di NY sono stracolme di persone arrestate a scopo cautelativo. La stragrande maggioranza di questi sono fratelli mussulmani che incontro ogni giorno in cella». Siamo a pochi passi dal fatidico "Ground Zero". Come vede oggi la ripercussione che la vicenda ha avuto nel popolo pakistano e afghano? «Il concetto democratico di questo Paese è tale che, se noi pakistani fossimo stati in India e ci avessero accusato di essere dei terroristi, ci avrebbero già sterminati tutti. E' pur vero che la mia terra, il Pakistan, avrebbe fatto bene a starsene fuori dal conflitto che è in corso. Non trovo giusto che per colpa di 16 terroristi, stiano pagando migliaia di persone innocenti».
«Non è comprensibile - prosegue l'Imam - come la potente FBI americana non sapesse di quanto qui sarebbe accaduto. Basterebbe un loro deciso intervento per debellare il terrorismo e far finire la guerra. Ma questo nessuno lo vuole e la guerra deve continuare... L'America, farebbe bene a rivedere molte sue colpe, primo fra tutti il conflitto palestinese. Non sono l'unico a dire che in fondo sono gli israeliani a controllare gli americani e non viceversa. Nel mondo ci sono troppe ingiustizie che alimentano il terrorismo. Coloro che fanno del male devono essere puniti. Però, nella stessa maniera debbono essere tutelati gli indifesi e gli innocenti. Odio chiama odio, violenza chiamerà altra violenza».
Il suo futuro allora come sarà? «In America, intende? Beh, probabilmente il tempo sanerà le ferite e questo paese ama troppo la libertà per non essere in grado di superare questo momento. Io ormai sono vecchio, ma credo che me ne tornerò presto nel mio paese. Per me il futuro potrebbe essere incerto... Spero solo che il popolo americano - conclude Shuja Chughtai - capisca che l'Islam è pace, saggezza, rispetto. Ma per capire questo, servirà ancora molto tempo per tutti».